Non so come quella maschera sia arrivata a me. Cioè, lo so benissimo chi me la abbia regalata. Ma come sia stata creata, da chi, con quale intento, e come la sua storia l’abbia portata ad altri viaggi, magari altre case e altre famiglie, lo ignoro.
So solo che è arrivata a me il giorno del mio 40mo compleanno, una data importante, dicono.
Un regalo scelto appositamente per me, per proteggermi, mi hanno detto.
I genitori del mio compagno si sono recati in questo negozio di fiducia, dove sapevano di poter trovare, cercando bene, qualcosa di particolare da portarmi in dono, scegliendo bene tra tutte le stranezze accumulate dal proprietario.
Non sapevano ancora, e a lungo ancora non avrebbero saputo, che non ero più sola ad aver bisogno di protezione. Due piccole uova al tegamino avevano scelto me come incubatrice. Fragili loro, fragile io, nessuno poteva immaginare, io stessa lo ignoravo, quanto avessimo bisogno di qualcuno o qualcosa che si prendesse cura silenziosamente del nostro stare insieme, del nostro covarci reciprocamente: io la loro crescita, loro il mio diventare mamma.
Lo ammetto, non ho accolto con simpatia la nuova arrivata. Non aveva una faccia amichevole. Mi metteva spavento. Ma più paura ancora mi faceva allontanarla. Come avrebbe reagito?
Nascere al Sud può produrre gravi effetti collaterali di inguaribile scaramanzia, con la quale sto contagiando, almeno per quanto riguarda l’assecondarmi, anche il razionalissimo tedesco padre delle uova al tegamino.
Passati i canonici tre mesi, ho cominciato a prendere la vita e le nuove vite dentro me, un po’ più alla leggera, sostituendo la teoria del karma positivo alle credenze popolari. Così, di rientro dalle vacanze, l’orribile maschera è finita nell’androne, per non disturbare l’elegante camera da pranzo, dove passo la maggior parte delle mie ore. Elegante almeno nelle intenzioni crucche, prima che io riempissi il davanzale della grande finestra che da sul giardino di meravigliosi danzatori del sole, mettendoli in coppie o gruppi secondo la fantasia della mia mente. C’è il surfista bullo che sta con l’attraente hawaiana, e mentre Cupido veglia sul loro amore un lottatore di sumo geloso li osserva da dietro invidioso e iroso. Poi c’è il fenicottero in costume che fa la corte alla fenicottera, per ora senza grande successo. E la scimmietta sull’altalena nella giungla (due piante grasse), e l’orsacchiotto sempre in altalena spinto dalla coniglietta miope all’ombra di un fiore giocoso. Insomma, la maschera, fra mie boiate e la vetrinetta elegante arricchita di articoli antichi, stonava proprio in un ambiente che in teoria avrebbe potuto accogliere qualsiasi altra accozzaglia di roba.
Ecco, forse scrivendo ci sono! La maschera si era trovata a suo agio come nel negozio dal quale era stata portata via. Scrivere schiarisce le idee! E io che volevo portarla in camera da letto. No, deve rimanere qui! E la volevo portare in camera da letto perché quando l’ho rilegata nell’androne, dove due elefantini innamorati e due lucertole davano una sembianza di africa, lei si è arrabbiata e io son finita una settimana in ospedale.
Tornata a casa l’ho riportata al suo originario momentaneo posto e non ho più avuto problemi. Anzi, mi stavo quasi riprendendo del tutto quando oggi la donna delle pulizie, brasiliana scaramantica anche lei, non l’ha rivista e inorridita ha insinuato: “è tornata qui? Devo far finta di farla cadere e romperla in mille pezzi?”. “Non sia mai!”, avrei voluto gridare io con tutta la tragicità del tono meridionale. Ma mi è uscito un crucco “meglio di no” e le ho spiegato la storia dell’ospedale. Ma lei continuava per la sua strada e io ho cominciato a sentirmi male, ad avere brividi di freddo alternati a calore. Mi sono rifugiata in bagno e poi a letto, e lì ho detto a me stessa che non importa da dove venga, ora importa solo dove sta. E che protegga me e quelle che non son più uova al tegamino ma due discoli che scorazzano nel mio pancino come se fosse il loro personale mare, in attesa di andarci tutti insieme, l’anno prossimo, al mare a far ancora capriole.
Che se il mondo non può essere del tutto capito, almeno una volta al giorno andrebbe capovolto.
Che se di tutti quelli con cui veniamo a contatto non possiamo conoscerne la storia e la vita, vanno accolti nelle loro diversità con le quali possono rendere migliore la nostra vita, spesso silenziosamente proteggendoci.