Sono certo che sarete d’accordo con me su una semplice constatazione: “Quando un gesto o un evento si ripete in maniera ossessiva, si possono scatenare reazioni impensabili, anche in una mente saggia, tranquilla e razionale.”
Se siete di parere diverso, concedetemi qualche minuto di attenzione.
Era un giovedì di una calda estate, l’ora quella della siesta. Seduto sulla solita sedia, la faccia contro il vetro sporco della finestra, aspettavo l’impercettibile tremore della casa crescere gradualmente.
Tempo 30 secondi tutto avrebbe tremato, dalle suppellettili al bicchiere con le mie matite accuratamente temperate sulla scrivania. Il rapido delle 14,45 sarebbe passato davanti ai miei occhi, senza fermarsi, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere, come ormai accadeva da mesi.
La mia piccola stazione di campagna non era più meta di viaggiatori, non so più da quanto tempo. Come spezzoni di un vecchio film ricordo abbracci commossi, lacrime di addio versate su valigie cariche di tristezza e di speranze, voci di bambini eccitati per la partenza. Ma quello che mi manca di più sono gli appassionati baci di giovani amori nel momento doloroso della separazione. Quanti ne ho visti da dietro quel vetro sporco. Quante volte ho sofferto con loro.
Non viene neanche più quel buffo ometto che tutti i giorni, alle 12 in punto, nel preciso istante in cui le lancette dell’orologio in cima al binario 1 si sovrapponevano, si materializzava dal nulla sulla banchina. Aveva sempre con sé una valigia troppo piccola per un grande viaggio. Non parlava, guardava l’orologio e aspettava fino al passaggio del rapido. Poi, come d’incanto, scompariva.
Ricordo che una volta gli chiesi perché non partiva mai. Mi rispose che partire è un po’ come morire e raccontò con dovizia di particolari le strane cose che vedeva nei suoi sogni e che il giorno dopo si ritrovava davanti senza preavviso.
Un giorno non venne alla stazione. Né i giorni seguenti.
Venni a sapere che l’avevano portato via su una lunga auto nera. In fondo aveva ragione lui. Partire è un po’ come morire. Ma sto divagando. Uscii al sole.
Il convoglio era passato e adesso era solo una piccola macchia tremolante per il calore che si perdeva all’orizzonte,scomparendo dietro alle colline.
Cercai di concentrarmi cercando di captare anche il più flebile segno di vita di quell’ambiente che sembrava essere caduto in letargo.
Un uccello che canta tra gli alberi, un refolo di vento. Niente, come al solito.
L’aria era ferma ed il cielo pareva lastra infinita di azzurro lucente, con al centro una palla di fuoco.
Aggiustai il nodo della cravatta con estrema cura e rientrai, accennando un sorriso, come se la stazione fosse stata ugualmente piena di gente. Chiusi la porta a chiave e con calma mi diressi verso lo specchio.
La faccia che mi fissava aldilà del vetro certamente non poteva essere la mia. Ne sono certo. Di sicuro lo specchio si doveva essere guastato, col tempo.
Rimasi ore a fissare quel volto sconosciuto, per niente intimidito dal suo sguardo, così simile al mio, mentre cercavo qualcosa di interessante da dire per rompere il ghiaccio.
Ma quello non mi aiutava. Non collaborava. Sembrava si divertisse un mondo a imitare ogni mio più piccolo movimento, come in un buffo gioco di bambini. La cosa dopo un pò, iniziò a diventare irritante.
Mi scostai dallo specchio, nell’intento di lasciare con un palmo di naso quello straniero che si faceva beffe di me.
Tornai a sedermi sulla sedia della scrivania per concentrarmi sul panorama al di là del vetro sporco. Ma non feci neppure in tempo a lanciare un’occhiata di fuori che una strana sensazione, qualcosa di indefinito mi fece voltare. E fu allora che vidi quella faccia da forestiero, ancora lì, nascosta dietro lo specchio. Rideva, rideva sempre più forte, fino alle lacrime, puntandomi il dito addosso, come un bambino impertinente.
Le sue risate sempre più forti mi rimbombavano nel cervello, facendomi pulsare le tempie. Mi sentivo soffocare e la stanza cominciò a girare.
Mi alzai di scatto dalla sedia che rovinò sul pavimento insieme alle matite. E fu in quel preciso istante che finalmente ebbi l’illuminazione. In un momento divenne tutto chiaro.
Si, ora sapevo cosa fare. Con lucida determinazione mi diressi come un automa verso il ripostiglio. La porta si aprì cigolando. Cercai a tentoni l’interruttore della luce mentre con una mano rovistavo tra gli scaffali facendo cadere scope e oggetti ormai dimenticati. La luce inondò il piccolo e stipato stanzino costringendomi a strizzare gli occhi e finalmente vidi il martello, nascosto su un ripiano accanto ad un vecchio ferro da stiro.
L’eco di quella voce insolente che continuava a ridere avrebbe avuto vita breve.
Mi avventai contro il mio nemico e fracassai lo specchio che finì in mille pezzi sparsi per la stanza. Poi, compiaciuto della mia opera, tornai alle mie faccende.
Quella sera, mentre mi preparavo la cena ero fiero di me. Gliel’avevo fatta vedere.
Dopo aver mangiato di gusto terminai di leggere un libro accantonato da tempo e mi coricai pensando al rapido delle 14,45 che sarebbe passato il giorno dopo.
Fu davvero sorprendente ritrovarmi nel bagno faccia a faccia con quel tizio la mattina seguente.
Indossava un pigiama simile al mio e aveva il volto coperto da schiuma da barba.
Allora non resistetti e gli chiesi: “E’ in partenza?”
Memore della lezione non rispose.