VINCENT
Vincent fin da bambino subiva l’attrazione per i cimiteri, passione che nel periodo dell’adolescenza s’era trasformata in esaltazione esistenziale, così come per la maggior parte dei suoi coetanei avviene per la musica rock o il calcio, i viaggi e le ragazze.
Adorava il cimitero della sua città: piccolo e ordinato, fiorito d’estate, innevato d’inverno.
Vi giungeva con le cuffiette, dove la voce di Kurt Cobain, il suo idolo, irrompeva graffiando a sangue il silenzio, di rabbia violenta e disarmante malinconia.
Una contraddizione in cui Vincent appieno si ritrovava.
Gli piaceva fotografare. Scattava foto che però non pubblicava sui social.
Quegli scatti rappresentavano i suoi stati d’animo. E quelli non erano condivisibili.Vincent amava i cimiteri. E seguiva i funerali. Dopo questa affermazione verrebbe da immaginarlo pallido, asociale e forse aspirante suicida.Nulla di tutto questo. Era un bel ragazzo con un aspetto sano ed una innata propensione alla comunicazione e alla felicità. Una positività che non lo aveva scalfito neppure nel periodo dell’acne, che per molti adolescenti si prospetta come una prima, durissima prova esistenziale.
E aveva l’aria da poeta, che seduceva le ragazze ma che gli era valsa l’ostilità dei bulli, dei fasulli, di quelli che si predisponevano a fare il il loro ingresso nella vita con i guantoni da boxe.
Gli stessi che lo avevano soprannominato per scherno “Il Barone del Cimitero”, evocando l’iconografia di uno stregone woodoo. Un traghettatore d’anime.
Un’immagine assolutamente menzognera ma efficace ai fini del dileggio.Vincent, incurante, assecondava la sua passione partecipando a tutti i funerali di cui veniva a conoscenza, nella sua città e in quelle limitrofe, imbucandosi da clandestino, così come altri fanno alle feste, ma a differenza di queste ultime, dove l’intruso viene quasi sempre sbattuto fuori o guardato con riprovazione, ai funerali si viene facilmente accettati perché la dimensione del dolore è così vasta che più si è a condividerlo più se ne alleggerisce il peso.
Partecipare ai cortei funebri, sia pure di estranei, gli era valsa un’infinità di amicizie.
E inviti a nuovi funerali.
Qualcuno perfino lo aveva nominato nelle ultime volontà, richiedendone espressamente la presenza.
Ma quando si rese conto che quella sua passione stava diventando oggetto di morbosa curiosità, il motivo per cui estranei s’imbucavano alle celebrazioni luttuose unicamente per vedere lui “il ragazzo che segue i funerali”, iniziò a seguirli alla distanza. Ma pure c’era sempre qualcuno sulle sue tracce munito di cellulare per testimoniarne la presenza.
La faccenda era degenerata in un fenomeno di moda.
Solo contro tutti, Vincent si trovava in un grosso casino pur senza aver fatto nulla di male.
Aveva capito, però, che quella sua passione era stata intenzionalmente trasformata in una perversione.
Aveva anche capito che doveva reagire a quell’accumulo di menzogne. Tirarsene via. Andarsene.
EMILY
Quello sguardo la rivelava nella sua vera natura, che era poi la sua stessa.
Le si avvicinò per presentarsi: «mi chiamo Vincent»
Seguirono affiancati il rito della sepoltura, e dopo che la celebrazione ebbe termine, continuarono a passeggiare tra le aiuole fiorite e le croci cesellate del piccolo cimitero, assaporando le emozioni di quel loro incontro, e scoprendosi nel silenzio condiviso, anime gemelle. Spiriti affini.
Emily aveva i capelli neri e gli occhi grandi. Si muoveva con grazia.
«Dunque, Vincent, dove sei diretto? » Domandò lei, rompendo il silenzio.
«Verso l’ultima frontiera.» Rispose Vincent d’istinto. Un segreto che non aveva fino a quel momento rivelato a nessuno«Non esiste l’ultima frontiera.» Disse Emily
«Come lo sai?» Domandò Vincent, colpito dalla sua asserzione.
«Perché anch’io ho intrapreso quel viaggio.» Rispose lei, guardandolo negli occhi
« Allora sarà una ricerca inutile la mia?» C’era delusione in quella sua domanda. E disperazione.
VINCENT ED EMILY
Erano rimasti a parlare al riparo di una gronda incuranti della pioggia e della notte imminente, sfamandosi con una mela che Emily magicamente aveva cavato da una tasca, e dissetandosi con l’acqua piovana raccolta nelle mani a coppa.
Parlarono di quella loro passione. Di quell’amore incomprensibile a coloro che nella morte leggevano solo il capitolo finale ignorando tutti gli altri che erano stati scritti prima. E quelli che sarebbero stati scritti dopo. Erano ciechi e stolti, e tali volevano rimanere se pure rifiutavano l’idea che qualcuno, come loro due ad esempio, potessero invece amarne la poetica e sentirsene attratti senza per questo covare oscure ossessioni.
Sotto quel riparo di fortuna, Vincent ed Emily, si scambiavano confidenze mentre la tempesta imperversava illuminando il paesaggio con l’isteria dei lampi e il rimbombo ultraterreno dei tuoni.
Una scena apocalittica. Intima, invece, per loro.
Lui le raccontò della sua tristezza nell’essere emarginato in quella che ormai gli veniva riconosciuta come una una devianza, ma che invece era solo il suo modo di esprimersi. E di essere. Così era maturata la sua fuga…no, non proprio una fuga, ma un distacco necessario per ritrovarsi e ricaricarsi dell’energia necessaria per poter continuare ad essere se stesso. Vincent non aspirava ad altro che al diritto di esistere. Sentiva però la mancanza dei suoi luoghi. E di quegli affetti che pure non lo avevano saputo capire, né proteggere. Seppure sua madre, al telefono, non smetteva di chiedergli scusa e piangendo lo implorava di tornare a casa, che le cose sarebbero cambiate.
Ma come fanno le cose a cambiare se non si sono fino in fondo comprese?
E troppo spesso si confonde l’amore col rimorso. La comprensione col perdono.
Emily gli strinse la mano.
Ci sono vicinanze che non hanno bisogno di parole. E la loro era proprio di quel tipo.
Rimasero così in silenzio sotto la gronda al riparo dalla pioggia battente. Iniziava anche a far freddo. Vincent offrì il suo giaccone ad Emily che lo accettò grata riservandone un angolino anche a lui.
Sotto quell’esigua coperta s’addormentarono.
Il mattino dopo Vincent si svegliò col sole che gli solleticava il viso. Ma Emily, però, non c’era. Esplorò i dintorni i dintorni ma di lei nessuna traccia. Poi la vide fuori dal cancello, giocare con un cucciolo di cane. Tirò un respiro di sollievo: non era dunque sparita. Non era un fantasma, come per un momento aveva pensato. E neppure un sogno.
Emily era reale.
«Buongiorno Vincent. Dormito bene?»
«Lui è Ossian, il guardiano del cimitero. Cioè, il guardiano è mio nonno e Ossian è il suo vice, perché è ancora troppo giovane ed inesperto per insignirlo di un grado maggiore.» Spiegò Emily ridendo, mentre Ossian abbaiava festoso, correndo dall’uno all’altra ed esibendosi in buffe capriole canine.Vincent: « Tuo nonno è il guardiano del cimitero? Anche tu abiti qui? »
Emily: «Sono nata qui, ma appartengo a questo posto non per diritto di nascita ma per quello dell’amore. Fin da bambina ho amato questi tristi giardini, come direbbe l’elegiaco poeta, e le croci e gli angeli di marmo e la vita clandestina che brulica al suo interno: i piccoli animali randagi che qui trovano un rifugio; gli uccelli che nidificano nel fitto dei cipressi; le coppie d’innamorati in cerca di privacy. Di recente anche un gruppo di rifugiati che non avevano un posto dove stare. Il nonno li ha rifocillati e permesso di dormire in una cappella attrezzata con delle brande. Avevano teso una corda tra le croci più alte e gli alberi, e vi stendevano i panni ad asciugare. Al mattino sventolavano al suono delle campane. Uno di loro aveva un violino e suonava tutte le sere per ringraziare dell’ospitalità. Poi s’è sparsa la voce e un vicino ha portato la chitarra e la sera dopo un altro è arrivato con la fisarmonica. Melodie improbabili. Ma le donne ballavano e nascevano nuovi amori. Credo che la poetica della morte sia da sempre nel dna della nostra famiglia. Mia madre, professoressa di letteratura, è un’appassionata cultrice della poesia cimiteriale: “Piango per Adonais…Adonais è morto! Giace il giglio spezzato e la tempesta è oltre”. Versi di Shelley, il suo poeta preferito.» Emily declamò quei versi con grande fervore, assumendo una posa drammatica.
« Io a dirti la verità non ne vado matta: atmosfere lugubri e macabre descrizioni. Insomma, una visione tetra, alla Edgar Allan Poe. Mio padre, invece, è uno scultore. Tutte le sculture qui sono opera sua. Nell’ultimo viale a destra c’è perfino un angelo con le mie sembianze. La sua idea della morte è leggera, alata e fiorita. Niente terra ma solo nuvole. Preferisco di gran lunga questa sua alla visione cupa, nichilista della mamma.»
Vincent: «Sembra proprio che tu abbia una famiglia e una vita meravigliose.»
SULLA SOGLIA DEL CANCELLO
«Sempre intenzionato a partire?» Domandò Emily dopo un lungo silenzio.
Vincent annuì, pensieroso. «Perché non vieni con me?» Le chiese d’impulso. Immaginava che condividere quel viaggio sarebbe stato meraviglioso. E lei era la sola alla quale lo avrebbe chiesto.
«Quel viaggio bisogna compierlo da soli» La voce di Emily, quasi un sussurro, tradiva un’emozione profonda ed intima, riflessa negli occhi, grandi e luminosi. «Grazie, però, di avermelo chiesto.»
Sulla soglia del cancello, in pieno sole, sembrava un’immagine di luce. Quasi irreale.
Era così bella che avrebbe voluto scattarle una foto. Ma lei s’era opposta.
«Niente foto e niente telefonate. Odio gli addii. Le immagini che sbiadiscono e le voci che la distanza rende ancor più remote. Ma sarò ancora qui se deciderai di tornare.»
Lo salutò sfiorandogli la bocca con un bacio.
VERSO L’ULTIMA FRONTIERA
Percorrendo la sua “mother route” verso l’ultima frontiera, Vincent, apprese dai giornali che i suoi erano in ansia, preoccupati per quella sua assenza che andava prolungandosi, e ne attendevano con trepidazione il ritorno. Ma l’ultima cosa che lui voleva era quella che si ritornasse a parlare di lui, “il ragazzo che segue i funerali”, e questo nessuno poteva garantirlo, anche se, nel frattempo, si era formata una piccola fazione di suoi sostenitori, ma che pure ripeteva lo stesso schema: la richiesta d’interviste, il pressing psicologico, la spettacolarizzazione, e la deformazione, delle sue emozioni. No, non era ancora il momento di tornare. E non sarebbe tornato finché non fosse cessato tutto quel chiasso intorno a lui. Niente più appelli pubblici. Niente più dichiarazioni. Niente più interviste. Niente di che nutrire la morbosità famelica che il suo caso aveva suscitato. E l’ultimatum ai suoi di non partecipare più a quei cinici talk show dove la sua vita era passata al setaccio e ridotta a brandelli, mentre il gruppo dei bulli aveva usufruito di una fama mediatica che li aveva trasformati in personaggi da romanzo, perché i cattivi, infine, hanno sempre un ruolo predominante in tutte le storie
Queste erano le sue condizioni, comunicate alla famiglia, per il suo rientro in data da stabilirsi.
VINCENT E COBAIN
Nel frattempo prendeva appunti e scattava foto che inviava ad Emily, che nel suo divieto riguardo i mezzi di comunicazione, non aveva incluso il cartaceo .
“Io e Cobain…”
Le lettere di Vincent iniziavano tutte così.
“Io e Cobain…” stava a significare che in quel suo viaggio non si sentiva solo.
Lettere senza risposta poiché lui si spostava continuamente e quindi non aveva un recapito fisso dove poterle ricevere. Presupponendo che lei avesse intenzione di rispondergli.
Un reportage in realtà un po’ squilibrato, colmo di riflessioni che talvolta nelle lettere successive acquisivano il valore di certezze incrollabili per poi ancora essere nuovamente smentite. Stati d’animo d’indicibile malinconia che s’alternavano a quelli di gioiosa esaltazione, in un carosello continuo di emozioni e sensazioni e stupori che lo confondevano e lo sfinivano. Lo stordivano e lo inebriavano. Di queste emozioni contrastanti, e all’apparenza incoerenti, non sempre riusciva a venirne a capo, alcune gli rimanevano attaccate addosso, indelebili, e non riuscendo a prenderne le distanze, lo tormentavano. Erano i momenti in cui lo sconforto prendeva il sopravvento e lui si sentiva emarginato. Esiliato. Rinnegato. Una figura sbiadita e senza contorni. Un fantasma. La maggior parte delle volte non sapeva neppure in quale regione del mondo stesse vagando. Quasi sempre erano posti in cui capitava per caso dal momento che la sua “mother route” l’aveva definitivamente smarrita. Eppure in quel suo lungo, solitario girovagare, aveva incontrato persone che spontaneamente lo avevano accolto e condiviso con lui cibo ed emozioni. Esperienze.
“Io e Cobain stiamo scoprendo che nel mondo ci sono altri guardiani del cimitero come tuo nonno pronti ad attrezzare con brande le cappelle e permettere all’ospite di tender un filo tra le croci e gli alberi per stendere i panni ad asciugare, e la sera fare un po’ di musica. E questo mi riconcilia col mondo. Anche con quello da cui sono fuggito e a cui un giorno farò ritorno. Forse solo per una sosta. O forse per sempre. Non lo so ancora con certezza. L’unica certezza è che ho voglia di rivederti. ”
Un viaggio straordinario quello suo che lo aveva portato a un capo all’altro del mondo alla ricerca dell’ultima frontiera, che immaginava non come luogo fisico ma piuttosto come evento straordinario, seppure non gli riuscisse d’immaginare in che modo si sarebbe manifestato, scartando per principio quello in cui meno credeva: il paranormale.
Sarebbe stata un’emozione. Una rivelazione. Un fotogramma anomalo proiettato in un contesto ordinario.
Un bagliore da cogliere al volo.
Ma quel fulgore non s’era però mai materializzato. O forse lui non era stato capace di vederlo. Eppure non ne era rimasto troppo deluso perché in definitiva confermava l’asserzione di Emily che l’ultima frontiera non esiste. Ma in compenso di penultime, invece, il mondo era pieno, perché gli uomini strenuamente s’impegnano a delimitare confini, innalzare muri e scavare trincee, seppure nessuna barriera sarebbe mai stata così alta da sovrastare il cielo, oscurare il sole o impedire alla luna di sorgere.
Fortificazioni. Prigioni. Cancelli di filo spinato. Camere di tortura.
Cimiteri a cielo aperto: cadaveri galleggianti sulle onde del mare o emergenti dalle dune del deserto.
Una morte defraudata di ogni poesia.
Soprattutto priva di una qualsiasi giustificazione se non quella del disprezzo per la vita.
ADONIS
“Io e Cobain abbiamo avuto la fortuna d’imbatterci in Adonis, (ti giuro che si chiama proprio così, come il protagonista dei versi di Shelley) un intellettuale siriano in fuga dalla sua terra.
Letteralmente siamo inciampati l’uno nell’altro. Un incontro da romanzo. Un incontro del destino, come sostiene Adonis. Un uomo che ha molto vissuto, profondo conoscitore del genere umano e dei luoghi del mondo. Uno straordinario compagno di viaggio che molto generosamente mi lascia attingere dalla sua forza. Di giorno viaggiamo. Di notte dormiamo in posti di fortuna. Riusciamo a comunicare nonostante il mio inglese scolastico. Parliamo di tutto. Gli ho raccontato anche di te. E del nostro incontro. E di questo mio viaggio verso quell’ultima frontiera che non ho trovato, e che forse, come tu affermi, non esiste. Domani percorreremo l’ultimo tratto di strada insieme, poi Adonis s’imbarcherà verso la Francia dove spera di ottenere lo status di rifugiato politico. Stanotte dormiamo all’addiaccio, in un cimitero. Ci sono croci divelte e tombe violate. E un silenzio pesante. La morte odora di urina e di confetti. Ti confesso che questa sua partenza mi rattrista e, anche se ci siamo scambiati gli indirizzi e la promessa di rimanere in contatto, per la prima volta, in questa mia avventura, mi sento solo.”
“Io e Cobain, stamane, abbiamo trovato l’ultima frontiera. Ce l’ha mostrata Adonis prima di partire. Un geroglifico sul suo petto, scavato così in profondità nelle sue carni che non rimarginerà mai più. Mai più smetterà di sanguinare. Una ferita orrenda. Una raffinata tecnica di tortura praticata nelle carceri siriane allo scopo di strappare l’anima ad un corpo ancora vivo. Strappare, non liberare
E l’anima urla nello strazio del corpo. Grida silenziose perché la bocca è sigillata dai bavagli. Inudibili all’esterno, si diventa invisibili. Inesistenti. Seppelliti vivi, s’invoca la morte maledicendo la vita. Prima di partire, Adonis mi ha permesso di fotografare il geroglifico sanguinante inciso sul suo petto: il sentiero della sua ultima frontiera. La sua. Perché l’ultima frontiera, mi ha rivelato, non si prospetta uguale per tutti. E neppure l’imbattervi è nel destino di ognuno. Così smetto di cercare. Torno a casa.”
p.s – Io e Cobain ritardiamo di un giorno la partenza perché siamo capitati in un luogo magnifico dove pare vada in scena il tramonto più bello del mondo. Imperdibile, a quanto mi è stato raccontato. Sarà la nostra ultima sosta prima del ritorno.”
L’ULTIMA FRONTIERA
Così Vincent aveva scritto in quella sua ultima lettera, che altre Emily non ne aveva più ricevute e inutilmente ne aveva attese.
La possibilità che potesse capitargli qualcosa di brutto non l’ aveva sfiorata neppure per un attimo.
Quando si è giovani l’ipotesi di morire è la più remota fra i destini possibili, anche quando se ne subisce il fascino e se ne diventa cultori, o ci si pone sulle sue tracce. E’ la morte di Adonais che celebriamo, non è mai la nostra e neppure quella di chi ci è caro.
E’ una morte poetica. Una morte romantica.
Una morte raccontata nella trama di un romanzo.
Ma mai una morte reale.
Perché noi, nel delimitato tempo che la vita ci concede c’immaginiamo eterni nel nostro mondo circoscritto, e non possiamo fare diversamente perché quello è l’unico modo per accettare la morte.
Ma la morte, al pari della vita è casuale. Legata a troppi fattori da poter essere tutti presi in considerazione, passeremmo l’intera nostra intera esistenza ad analizzarli. Comprenderli. Assimilarli
.. e poi inciampare in una mina anti uomo, mentre si è intenti a fotografare il riflesso del più bello dei tramonti. Un bagliore da cogliere al volo.
E la voce di Cobain a graffiare a sangue il silenzio.