«Esce, Johan?».
Il cerusico si voltò indietro.
«Sì, pensavo di andare a prendere un po’ d’aria. Viene anche lei?».
Wolfgang alzò gli occhi dal foglio su cui stava scrivendo.
«Grazie, ma preferisco finire questo pezzo».
«Di cosa si tratta?».
Il cavaliere sollevò la carta e ci soffiò sopra per far asciugare l’inchiostro.
«È un poemetto di un Signore italiano, Lorenzo De Medici».
«Mai sentito» ammise il cerusico-
‘Quanta è bella giovinezza
che si fugge tuttavia…’
«Mi perdoni, ma non capisco l’italiano».
‘What beauty lies in youth
yet ever so fleeting!
Let him who wants to, be happy
for there is no certainty in tomorrow.’
«Traducete in inglese?».
«Solo come passaggio» rise Wolfgang «in tedesco devo metterla in metrica, così è più facile».
«È interessante… Mi sembra banale, però».
«Già. Le poesie non andrebbero mai tradotte, perdono tutto il loro fascino».
«È dunque a questo che state lavorando con tanto impegno?».
Wolfgang rise.
«No, mio caro amico! Questo è soltanto un divertimento, per snebbiarmi la mente da ben altro lavoro!».
«Cosa è, dunque?».
«Lo vedrete a suo tempo».
«Ah beh… Ci vediamo, allora».
«Divertitevi con la bella cameriera».
«Ehi, come…».
«Ho visto come vi guardava, stasera. Solo, non dimenticatevi di lasciarle qualche moneta».
«Guardate che non è quel tipo di donna».
«Certamente no. Ma sarà povera e la gioventù sfiorisce presto. Avrà magari dei genitori anziani a casa e dei soldi le verranno certamente bene».
Johan accennò di avere capito.
«Senza offesa, eh!» ribadì Wolfgang. «D’altra parte ognuno ha i suoi peccati».
«E scrivere sarebbe il suo?».
L’amico dondolò la testa.
«Non c’è andato lontano, ma le ho detto che queste cose le saprà a tempo debito».
Johan non disse più nulla e uscì, richiudendo piano la porta. Lo spostamento d’aria fece tremare la fiamma della candela e a Wolfgang sembrò che i riflessi danzassero sulla carta.
Fuori l’aria era fredda. Il vento era girato e adesso una tramontana tesa sferzava il volto. Johan alzò il bavero del suo mantello e vi si avvolse meglio che poteva, stando attento a camminare al centro della strada per non finire nei canali laterali dove potevano esserci degli escrementi. Nella sua attività di medico aveva messo più volte in guardia i borgomastri delle città dal pericolo di epidemie dovute alla mancanza di igiene, ma i governanti avevano sempre fatto orecchie da mercante alle proposte che comportavano delle spese per le classi abbienti, limitandosi ad andare a vivere nelle ville ai margini degli abitati, lontano dai miasmi.
La locanda a cui era diretto per fortuna non era molto distante, e se anche la pulizia del locale non aveva niente a che vedere con il dignitoso albergo in cui alloggiavano, lui non era andato lì per quello. Il suo amico aveva visto giusto: erano i sensi a guidarlo, non l’appetito.
Sopra all’uscio una lanterna illuminava la rozza effige di un gufo scolpita su di una tavola di legno, a stento riconoscibile. Da dentro veniva il rumore di gente che discuteva ad alta voce, e quando aprì la porta per entrare fu investito dal lezzo di vino di cattiva qualità che ristagnava all’interno. Con uno sforzo entrò e richiuse la porta alle sue spalle, guardandosi intorno. La sala era ampia, con una decina di tavoli di varie forme e dimensioni e come era uso in molte bettole del genere c’erano persone che suonavano e che cantavano in coro, o semplicemente rovesciate vicino alle panche, vinte dal vino.
L’odore della legna che bruciava compensava in parte i miasmi che aleggiavano nella stanza. Con la mentalità del medico, Johan attribuì questi alle fermentazioni intestinali dovute alla dieta povera di quella gente, patate e legumi, soprattutto, oltre che ai disturbi digestivi causati dall’eccesso di alcool. Questo lo aiutava a sopportarli, ma non certo a farglieli piacere.
Indeciso su dove sedersi, scelse un piccolo tavolo d’angolo, il più lontano possibile dagli altri avventori ma vicino al fuoco. Il tepore del camino riuscì in pochi momenti a vincere il freddo che aveva accumulato nel percorso dal suo albergo. Si tolse dalle spalle il mantello e scoprì la giacca ad ampie falde, sotto cui indossava un elegante panciotto e una camicia a collo alto, serrata da una cravatta con il nodo elaborato. Il tutto dava una sensazione di agiatezza, che era appunto quello che lui intendeva mostrare.
Girò lo sguardo intorno a sé, cercando di scorgere la cameriera, ma dopo qualche istante vide venire verso di lui il padrone.
«Cosa desidera Vostra Signoria?» chiese l’uomo, con fare deferente.
«Avete della buona birra?».
«Certamente signore. Per lei della migliore qualità. Desidera mangiare? Abbiamo arrosto di cervo, pasticcio di maiale…».
«Mi scusi, l’altra sera avevo intravisto una giovane cameriera…» lo interruppe Johan.
L’oste non mutò il suo atteggiamento, ma un accenno di sorriso si dipinse sul suo volto.
«Forse si riferisce a Bella. Sta servendo al piano di sopra, ma se le è gradito posso andare a chiamarla…» disse.
«Ecco… sì, mi sarebbe appunto molto gradito».
Johan preferì sorvolare su quello che la ragazza potesse fare al piano di sopra, visto che la locanda aveva una sola sala, ma poi pensò che forse stava riordinando delle camere.
Dopo qualche momento Bella fu al suo tavolo.
«Cosa desidera signore?» chiese, con un sorriso impertinente, leggermente accaldata.
‘Te’ pensò lui, ma si trattenne.
«Un buon boccale di birra e una porzione di arrosto» disse.
Lei rise, e il suo seno morbido e pieno sussultò.
«Allora il mio padrone si è sbagliato…».
«Cosa intendi dire?».
«Mi ha detto che desiderava me…».
Quell’approccio così esplicito scombussolò Johan, che si mise a tossicchiare.
«Sono venuto qui per desinare» disse, tentando di recuperare la sua dignità «ma non nego che la tua bellezza mi ha stregato».
«Dopo, allora» disse lei, e sparì in cucina, ritornandone con un grosso boccale di birra.
«L’arrosto arriverà tra poco».
«Grazie».
«E poi, se lei desidererà ancora qualcosa…».
Lui la guardò, incapace di resistere.
«Sì, dopo».
«Ai suoi ordini!» lo derise lei, saltellando via.
Alla fine Johan non aveva capito se Bella fosse una prostituta di mestiere od occasionale, come aveva suggerito il suo amico, ma uscendo dalla stanza decise che non gli importava. Era stato bene e aveva aggiunto a quello che era, eufemisticamente, ‘l’affitto della stanza’ un paio di monete d’argento, lasciate sul comodino con fare discreto che non era tuttavia sfuggito agli occhi attenti della ragazza. Giunto sul pianerottolo si ricompose e si accertò di avere ogni cosa al suo posto, anche se il fatto che scendesse quella scala doveva avere un significato inequivocabile per i frequentatori abituali, che infatti lo guardavano di sottecchi.
Ignorò quegli sguardi e si avvicinò al bancone per chiedere un’altra birra, poiché l’amore o forse l’arrosto troppo salato gli aveva fatto ritornare sete. Rifletté sul fatto che forse il padrone aveva salato oltre misura la carne proprio per quel motivo, ma alzò le spalle, poiché non voleva rovinarsi la bella serata per così poco.
Prese il boccale di birra bionda e ne ingurgitò un lungo sorso, poi lo posò soddisfatto sul banco e si voltò verso la sala. Fu allora che la vide.
Bella stava servendo ai tavoli, con il consueto fare allegro. Ma ciò era impossibile, perché l’aveva lasciato pochi istanti prima in camera, nuda, e comunque non poteva essere scesa dabbasso senza che lui la vedesse, perché non aveva mai perso di vista la scalinata!
In un istante riacquistò la lucidità e svanì il piacevole torpore che l’aveva invaso. Prese un rozzo candelabro e balzò sulla scala facendo i gradini a tre per volta, fermandosi solo davanti alla porta chiusa della camera.
Dopo un attimo di indecisione l’aprì di colpo, pronto a tutto, e fece irruzione nella stanza.
Il letto era rifatto e non c’era più traccia della ragazza, ma sulla sedia vicino allo scrittoio, voltata verso di lui, stava una nera figura che l’osservava con un ghigno dipinto sul volto magro.
«Chi… chi sei? Dove è Bella?» chiese Johan, superato l’attimo di smarrimento.
L’ombra fece un largo gesto con la mano.
«Bella non è qui, né mai c’è stata. Quanto all’altra domanda, dovresti sapere chi sono».
«Tu!» Johan fece un passo indietro, inorridito, e quasi la luce gli stava cadendo sul pavimento. «Tu, essere infernale! Come hai potuto? Vade retro!».
L’altro si alzò in tutta la sua statura, sovrastando il medico di una buona testa.
«Non mi sembrava che la pensassi allo stesso modo poco fa, quando mi sussurravi ‘amore mio’».
Johan si coprì gli occhi con un braccio, arretrando ancora.
«Non è colpa cadere negli incantesimi del demonio!» urlò «La mia anima non ha peccato!».
«Forse la tua anima no, ma il tuo corpo direi di sì» rise l’ombra, «ma non è di questo che dobbiamo parlare».
«Io non ho niente da discutere con te!».
«Dici così eppure non te ne vai. Siediti dunque, si tratta del tuo compagno».
«Cosa c’entra Wolfgang con tutto questo? Lui è rimasto nella sua stanza a lavorare».
«Lo so. Ma tu sai a cosa sta lavorando?».
«Traduce una poesia di…».
«No. Ma vogliamo sederci?» disse, facendo apparire un’altra sedia vicino alla prima. «Bene, adesso che siamo più comodi parliamo. Non mi interessa quella poesiola, ma l’altra opera, quella che nasconde gelosamente…».
Adesso era Johan ad essere interessato.
«Quale altra opera? E cosa c’entri tu con tutto questo? E poi, tu chi sei?».
«Questa era una domanda che non avresti dovuto farmi. Ebbene, signor cerusico, io sono proprio io, Mefistofele in persona». E nel dire questo si tolse il floscio cappello che portava, rivelando due piccole corna nere.
«Oh sì, queste corna sono solo coreografiche, non farci troppo caso. Le ho fatte apparire solo per dimostrarti la mia identità, ma posso celarle quando voglio, E poi, come vedi, non ho né zoccoli né coda».
Istintivamente Johan volse lo sguardo in basso, facendo scoppiare il demonio in una risata.
«Diffidente, eh? Bravo, mi piacciono le persone come te. Mai prestar fede al demonio, si dice, anche se forse io sono l’unico a dire la verità. E a mantenere le promesse».
«Quale promessa?» chiese Johan, ormai incantato da quella assurda conversazione.
«Vedo che siamo arrivati al punto». Il demonio fece scorrere il palmo della mano sopra la fiamma della candela, come a volerne sentire la temperatura.
«Il tuo amico è un buon scrittore, come certamente sai, ma come ogni scrittore nel corso della sua opera è arrivato ad un punto morto. Forse riesci ad intuire di quale si tratta…».
«Proprio no. Dimmelo tu».
«Wolfgang, ottenuto il successo, voleva scrivere un’opera che restasse nella storia dell’umanità, una pietra miliare, qualcosa che l’avrebbe fatto ricordare per sempre. Un desiderio molto umano, no?».
Joahn non rispose, inorridito da quello che cominciava a capire. L’altro continuò:
«Come le dicevo, Wolfgang è un bravo scrittore, ma ha un difetto: è umano, e gli esseri umani hanno dei limiti, il primo dei quali è non poter andare oltre la propria natura, nonostante sia il loro principale desiderio».
«La storia di Adamo ed Eva…».
«La leggenda di Adamo ed Eva» lo corresse Mefistofele «non crederai che sia una storia autentica, spero. Non sarebbe da te. Comunque sì, è forse la migliore rappresentazione del desiderio umano di trascendere la propria natura».
«E Wolfgang…».
«Oh!» rise il demonio «il tuo amico non aveva simili pretese: si sarebbe accontentato di scrivere un’opera che fosse eterna, quello che l’Iliade ha rappresentato per l’antichità classica».
Johan era sbigottito, schiacciato dalle implicazioni di quel lungo discorso.
«E per questo si è rivolto a te…».
«Esatto. Sapevo che avresti capito. Abbiamo fatto l’accordo canonico, la sua anima in cambio di quell’opera».
«È mostruoso!».
«Niente affatto. Rifletti che probabilmente la sua anima l’avrei ottenuta lo stesso, e comunque non mi interessava».
«Allora perché hai stretto quel patto?».
«Perché mi interressava, m’interessa, la sua opera. Farà progredire lo spirito umano, ma sarà pur sempre un’opera del demonio, perché io l’ho ispirata e ho permesso che nascesse. In questo sono stato un demiurgo, mi capisci?».
«Sì, credo di sì» disse amaramente Johan.
«Ne sono lieto. Continua quindi ad accompagnare il tuo amico e convincilo a smetterla di cercarmi e a completare piuttosto la sua opera. Io mantengo i miei patti e lui sarà ricordato per sempre»,
«Ma perderà la sua anima!».
«E chi ti dice che non l’abbia già persa? E quale anima, poi? Sei così sicuro di averne una? L’hai mai vista?».
Un nuovo pensiero attraversò la mente del medico.
«E io? Ho forse stretto un patto anche io, nello sciagurato amplesso di poco fa?».
«Tu? No, stai tranquillo. Tu ha già pagato il tuo debito: non hai forse lasciato sul comodino due monete d’argento?».
E ridendo ancora una volta il demonio soffiò sulle candele e il buio invase la stanza. Nel tempo che Johan impiegò per uscire e procurarsene altre era sparito nel nulla.
La porta scricchiolò aprendosi, e Wolfgang si voltò.
«Ancora sveglio?» chiese l’amico.
«Sì» rispose questi «stanotte, non so perché, ma mi è venuta potente l’ispirazione per il mio lavoro. Credo che non andrò a dormire finché non mi abbandonerà».
«Come crede. Io invece mi butterò a letto, se non le dispiace».
«Certo che no. A proposito, com’è andata la serata? Era come avevo pensato io?».
«Sì, in parte sì. Ma non voglio disturbare il suo lavoro: mi pare di capire che sia importante».
Wolfgang restò un attimo con la penna in mano, sorpreso.
«Sì, ma,è la prima volta che me lo dice. Grazie».
«Non c’è di che. Buonanotte».
«Buonanotte Johan, amico mio».
Il medico si spogliò in silenzio e si infilò sotto le pesanti coperte, girandosi dall’altra parte per non vedere la luce della candela.
Wolfgang rimase in silenzio, pensieroso, poi voltò con delicatezza le pagine già scritte e vergò sulla prima di copertina il titolo che proprio allora gli era venuto in mente: Faust. Eine Tragödie.