Ascoltalo l’audio-racconto!
Immaginate la voce melodiosa di un usignolo ingabbiata in una grancassa. Questa era Fernanda Castillia.
Una gigantessa di origine creola, dal naso imperiale, i seni impetuosi e gli occhi di pantera.
Puttana di mestiere. Soprano di vocazione.
Osannata, nell’eclettico e caotico microcosmo di Baia di Ysmael, come la regina delle prostitute.
Regina, ma con animo democratico.
Banchieri e notabili pagavano profumatamente il suo assolo orgasmico che faceva fremere la terraferma e sommuovere gli oceani.
Marinai e filibustieri, invece, ne usufruivano gratis, in virtù della sfrontatezza dei loro muscoli e della fantasia sfrenata dei loro tatuaggi.
Fernanda Castillia, con la stessa democrazia e col medesimo entusiasmo, si concedeva a queste due categorie di uomini.
Sdegnosamente ignorando tutte le altre.
Era lei a svezzare dalla timidezza sessuale gli adolescenti di Baia di Ysmael.
Entravano nel suo letto con bocche affamate di cuccioli orfani.
E ne uscivano con appetito insaziabile di uomini fatti.
La gigantessa, consapevolmente, offriva loro la lussuria peccaminosa di un incesto materno.
Marchiandoli.
Dannandoli, per il resto della vita, a cercare quello stigma in tutte le donne.
E quell’assolo orgasmico. Impudico. Celebrativo.
Una nenia vaginale che intensificava in un crescendo impetuoso di bolero.
L’affermazione sessuale, perentoria e conclusiva, dell’ape regina che dentro di sè ha infine intrappolato l’organo genitale del fuco.
Mutilandolo.
Il pasto nudo dell’orchessa.
Era questa la seduzione di Fernanda Castillia.
Una provocazione sessuale.
Una sfida eccessiva.
Contro ogni morale.
Alla fine era sempre lei, la regina, a vincere.
Fino al giorno in cui i suoi occhi giallo zafferano incrociarono quelli azzurrissimi di Ignacio Amaral.
Portoghese di nascita. Liutaio di professione.
Sposato e padre di una nidiata di figli. L’ultimo dei quali ancora in grembo alla moglie.
Ignacio Amaral, uno scricciolo d’uomo, dalla pelle notturna e le labbra tumide.
E dallo sguardo siderale.
Sguardo che subito distolse dall’occhiata impertinente che Fernanda gli aveva lanciato.
Per la notorietà equivoca di lei.
Che in tutta Baia di Ysmael era risaputa.
Un uomo dabbene, Ignacio Amaral.
Uno di quelli delle categorie intermedie che Fernanda mai avrebbe preso in considerazione.
Uno di quelli a cui il suo assolo celebrativo mai sarebbe stato concesso.
Nei giorni che seguirono, invece, Fernanda sempre più spesso si ritrovò a pensare a lui.
A quella comunicazione di sguardi.
Alla collisione dei loro mondi.
Così si era decisa a rompere gli indugi e, riesumata la carcassa centenaria di un remoto violino, cimelio da soffitta, si era recata alla bottega di Ignacio Amaral e con piglio deciso gli aveva chiesto
– Potete ripararlo? –
Ignacio aveva abbracciato in un unico sguardo la carcassa legnosa e la mano enorme che gliela porgeva. E, alzando lo sguardo, si era trovato davanti gli occhi di foresta di Fernanda.
– Credete forse nei miracoli? – rispose lui, con tono divertito
– No, ma credo in voi – fu la replica coincisa.
Che non contemplava alcun rifiuto.
– Tornerò a verificare il lavoro. Prendete tutto il tempo che occorre. Non ho fretta –
Disse lasciandogli il violino tra le mani.
Ed una traccia sinuosa di cacao amaro, che fece fremere le narici del mastro liutaio.
E tornò Fernanda, ottemperando alla promessa fatta.
A constatare la progressiva resurrezione del suo violino.
Preannunciata dall’aroma amaro di cacao, la sua sagoma ingombrante si materializzava sulla soglia del laboratorio del liutaio.
E, per un momento, il pomeriggio tramutava in crepuscolo.
Una polvere bruna di cacao oscurava il sole.
E ne emergeva la gigantessa, fasciata in corpetti color malva o melanzana, che a stento contenevano l’esuberanza espansiva dei seni.
E sulla porta c’era lei, Fernanda, che lo salutava con la voce melodiosa di usignolo ingabbiato in una grancassa. Soffocando ad ogni visita, e sempre più a stento, l’assolo celebrativo che premeva per erompere.
Ed Ignacio Amaral le sorrideva dalla profondità scura del retrobottega.
E le veniva incontro, offrendole la comodità di una seggiola e la freschezza lattiginosa di uno sciroppo d’orzata. Debitamente aromatizzato di cannella e fortificato con vaniglia.
L’assolo celebrativo veniva così gentilmente ricacciato in gola dalla dolcezza dell’orzata.
– Festeggiamo oggi, donna Fernanda, la nascita di un’amicizia. E di una stima personale. Le persone non sempre sono quel che sembrano. E voi, ecco si, voi siete una regina – Questo il complimento, sincero e commosso di Ignacio, nel gesto di chinarsi a baciarle la mano.
Una mano enorme.
Che facilmente avrebbe potuto sopraffarlo.
Tanto squilibrate erano le loro proporzioni fisiche.
E fu allora che Fernanda valutò che la sua pazienza era giunta al termine.
Lei era quello che era e non quello che lui immaginava.
O quello che lei si era ingegnata a fargli credere.
In nome dell’amore si stava giocando fama e reputazione.
Bisognava ristabilire la verità.
E su queste emozioni che le ali dell’usignolo presero a librare con frenesia selvaggia, all’interno della grancassa.
In uno spazio improvvisamente esiguo.
Dove l’assolo urgeva di uscire con l’intensità di un crescendo da bolero.
L’ape regina doveva portare a termine la missione per cui era stata concepita.
Col suo piede da soldato Fernanda chiuse la porta e l’oscurità, di colpo, permeò la bottega.
Sorpreso dal buio e da quella reazione imprevista, Ignacio si trovò ad indietreggiare nel fondo, incapace di formulare ipotesi istantanee.
Attonito per quel gesto repentino.
Non ancora del tutto consapevole della minaccia aggressiva.
Lui indietreggiava mentre lei lo fronteggiava avanzando.
Un drammatico paso doble, in un’arena circoscritta e deserta.
E nessuna possibilità di fuga.
Il destino del toro nell’arena è già tracciato.
Così come quello del fuco nella sacca spermatica della regina.
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