E con il titolo ci siamo giocati qualsivoglia “effetto sorpresa”, lo so… perché tutto il mondo conosce (50 milioni di copie vendute) Il nome della rosa quale titolo di esordio, come romanziere, del 48enne professore universitario, saggista, semiologo e una infinità d’altri titoli accademici, ma non certo scrittore e, men che mai se vogliamo, scrittore di gialli, Umberto Eco.
Una sfida avrebbe detto poi l’illustre autore, nata quasi per gioco e poi divenuta una pietra miliare della letteratura italiana ed un successo internazionale. Doppia aggiungo io, visto che non t’aspetti di certo che un paludato e stimatissimo professore universitario si metta a raccontare storie, medievali d’accordo, ma pur sempre roba d’assassini ed investigatori, seppure anti litteram o, peggio, della famigerata Santa Inquisizione. Il fatto è che ci troviamo di fronte ad un autore che non è soltanto uno che ha scritto libri ma qualcosa di più complesso e antico. Umberto Eco è, probabilmente, uno degli ultimi studiosi come un tempo s’intendeva, di grandissima e vasta cultura “globale”, capace di affrontare con estrema disinvoltura non solo temi tecnici e complessi come quelli delle discipline da lui insegnate all’Università di Bologna, ma anche ogni aspetto della cultura contemporanea potendo attingere ad un pozzo, senza fondo forse, di cultura enciclopedica.
Un vademecum storico dei “Secoli Bui”
Ed infatti il suo romanzo d’esordio, come buona parte dei successivi, è in realtà una sorta di vademecum storico di un preciso e non a caso controverso momento storico. Come tutti, sono stato educato a pensare al Medio Evo come al periodo dei cosiddetti secoli bui. Con Eco salta all’occhio che nulla di più impreciso poteva essere contrabbandato. Non ho la più pallida idea del perché sia nata e poi si sia propagata nel tempo questa idea completa falsa della storia. Leggendo Il Nome della Rosa non puoi non accorgerti di quanto ti abbiano imbrogliato dandoti una definizione così inesatta d’un momento storico estremamente vario e vivace.
Probabilmente è anche un retaggio della volontà di celebrare l’Illuminismo prima e la successiva era del progresso scientifico; in questa ottica certo il Medio Evo appare come qualcosa di lento ed asfittico, probabilmente addirittura una sorta di passo indietro rispetto alla magnificenza dell’Impero Romano, la cui disgregazione segna appunto il “passaggio” puramente simbolico di due epoche. Nella realtà, e dico cosa scontata che sanno pure i sassi, non ci sono epoche ed i passaggi dall’una all’altra son pure speculazioni di chi viene dopo e sente la necessità di indicare paletti e date che possono avere un vago senso solo per gli studenti che debbono mandare a mente la materia storica. Anche se troppo spesso la storia studiata a scuola finisce per diventare nulla più che una serie di stupidi e vuoti paletti… ma questo ci porta lontano.
Torniamo dunque a Eco e mi scuserete se, inevitabilmente, finirò per parlare solo del Nome della Rosa. Intanto confesso: di Eco ho letto anche Baudolino, Il Pendolo di Focault e L’isola del giorno prima, ma non il resto dei suoi romanzi anche se li possiedo tutti. Ma questo, ormai lo avrete capito, è vero per molti autori ed è il mio modo di esorcizzare certe paure: non posso andarmene se non ho letto i miei libri… Il nome della rosa però, per tornare a bomba, resta “il libro” di Eco. In più e al di là della trama, ch’è comunque avvincente e perfettamente plausibile anche allorché messa al vaglio della lente “gialla”, quello che affascina a mio avviso è tutta la bellezza, la complessità, il mistero che avvolge il monastero e la grandezza dei personaggi.
Si impara così che, in barba ai mistificatori storici, il Medio Evo è stato tempo ricco di slanci culturali, di mistica e di ricerca; certo, l’immanenza della divinità è totale e terribile. Al punto che anche l’omicidio è strumento divino per il raggiungimento del disegno che gli umani attribuiscono al loro dio. Eco che nella sua crescita (o decrescita, fate voi) morale era passato dai banchi dell’Azione Cattolica a quelli dell’ateismo, non riesce a nascondere una vena ironica e dissacrante nei suoi personaggi e nelle ambiguità che li muovono. Ma, in un certo senso, questo altro non è che la conferma di quella piena vigoria mentale dell’epoca.
Personaggi assai vividi
Jacques Le Goff, grandissimo medioevalista scomparso qualche anno fa (come del resto Umberto Eco), diceva giustamente che l’uomo medievale era un uomo religioso per antonomasia, tanto ch’è difficile sovente per noi comprenderlo. Quanto e come fosse centrale il senso del divino nella sua vita è qualcosa che sfugge alle logiche odierne, incentrate su “altri valori” (mettiamola così per non correre troppi rischi).
In quelle pagine allora emerge intera la sofferenza che discende diretta dall’interpretare vita e persone in funzione del divino. Così come è forse addirittura eccessivo il fragore con cui il nostro professore rivendica la centralità della cultura e del libro. La misteriosa, labirintica, segreta biblioteca del monastero, con la sua configurazione in gironi concentrici e scale alla Erscher, buona a simboleggiare il “dedalo” in cui si perdono gli umani e si muove a suo agio il monaco cieco che, a modo suo, adora quegli scaffali anche quando e laddove quei tomi stanno a mettere in dubbio la verità rivelata ed i sacri principi dottrinali che è cura della Inquisizione difendere dagli attacchi del maligno.
Il grandissimo amore per il libro e ciò che rappresenta è l’altro monumentale perno su cui ruota una storia accattivante e gradevole, che t’immerge nelle contraddizioni del peccato e, al tempo stesso, porta con sé il germe della salvezza che la cultura rappresenta, tramite il contributo della ragione che in qualche modo finisce per trionfare sulle meschinerie umane e sulle sue paure ancestrali. In tale ambito si muovono personaggi assai vividi, al punto che anche la trasposizione cinematografica riesce ad essere convincente ed appassionante, cosa per nulla frequente.
Che Eco abbia vinto la scommessa cui s’era sottoposto, ammesso che non si tratti di leggenda metropolitana, è fuor di discussione e, una volta tanto, il successo del libro e del film stanno lì a testimoniare la bontà d’un lavoro sopraffino e ricercato.
Un testo da assaporare in poltrona con un sottofondo di musica classica
Ora il professore non è più tra noi: una mancanza culturale pesante per il nostro paese, già così martoriato culturalmente (e non) parlando, di quelle cui non c’è rimedio. Anche se forse negli ultimi anni alcune sue prese di posizione m’han lasciato perplesso, non è pensabile disconoscere il grado di importanza del personaggio nella nostra storia letteraria. Che poi non tutti amino Il Nome della Rosa forse dipende anche dal fatto che ci siamo, probabilmente, disabituati a testi che abbiano anche un pronunciato spessore culturale e, di conseguenza, richiedano una lettura che non sia solo “leggiadro passatempo”. Potrei dire una grossa bestialità, ma ho netta la sensazione che sia difficile dedicarsi ad una simile lettura su di un telefonino o anche un kindle.
È come se, per guastare davvero un simile lavoro ci voglia la più classica delle poltrone, la luce soffusa di una abat-jour, un mezzo bicchiere di cognac e, magari, un buon disco di musica classica a fare da sfondo.
O forse il mio è solo un “vizio” da vecchio, consumato, inossidabile lettore. Fate voi…