Avrei voluto intervenire più in là per dar tempo a chi era interessato di esprimersi, ma i due scritti che sono stati presentati sono interessanti – e poi questo è solo il primo gioco, e non dei più facili – per cui dico subito la mia.
Intanto, cosa avrei scritto io. Sì, perché prima di proporlo ho provato anche io a scrivere nei canonici 10 minuti e devo dire che mi ero focalizzato sulla definizione di bicchiere e di acqua. In poche parole, ero stato meno creativo di voi, e sbagliavo. Riporto la soluzione secondo l’opinione dell’autrice del libro:
“L’esercizio è meno facile di quel che sembra. Vi propone un problema analogo a quello affrontato dagli informatici che stanno costruendo il web semantico prossimo venturo, e provano a spiegare a un computer il significato di parole e gesti che a noi sembrano ovvi perché si riferiscono all’esperienza quotidiana, ma che in realtà rimandano ad ampie e complesse reti di concetti interconnessi in una trama fittissima di relazioni, proprietà e gerarchie.
Nella nostra mente “bicchiere” è connesso con l’idea di cavità e con quella di contenere, con il bere e l’avere sete, con i concetti di “solido” e di “liquido”, con una serie di materiali (vetro, cristallo, plastica, latta… e non, per esempio, con “stoffa”, o con “granito”) e con mille altre idee, informazioni e ricordi che potreste elencare.
Ma non solo: di un bicchiere sappiamo che difficilmente può pesare mezzo grammo o un chilo o essere più basso di qualche centimetro (se no, è un ditale) o più alto di una trentina di centimetri (se no, è un vaso), che di norma ha un bordo non tagliente e non troppo spesso per poterci appoggiare le labbra, che bisogna poterlo tenere in mano e poterlo appoggiare dritto su un tavolo e che se ha un manico cambia nome e si chiama “tazza” o “boccale”.
Tutto questo vi aiuta anche a distinguere al volo un bicchiere da un cono per il gelato, da una campana, da una bottiglia o da un cappello a cilindro.
Nella nostra mente è depositata una specie di immagine-modello che riassume tutti i bicchieri possibili (e ce n’è una per “sedia”, una per “montagna”, una per “ombrello”, per “elefante” e per “torta di nozze”…).
Le avete viste, per un nanosecondo, mentre leggevate?
Ecco: quando leggiamo o diciamo “bicchiere” ci viene in mente quell’immagine lì che sta nella nostra mente. E se scrivo “bicchiere a calice di vetro azzurro” quell’immagine si modifica, ma continua a non corrispondere a un bicchiere reale. Quello è il nostro personale modello di calice di vetro azzurro.
La cosa da ricordare è questa: ogni parola si porta dietro una o più immagini, che riassumono molto di ciò che sappiano dei suoi significati. Perfino le parole astratte, quelle che non rimandano a niente che abbia consistenza fisica (per esempio “fiducia” oppure “invecchiare”) ci fanno germogliare immagini in testa.
Ovviamente, quanto più la nostra esperienza è ricca e dettagliata, tanto più ricche e dettagliate sono le immagini che ne conserviamo. Se, scrivendo, stiamo attenti alle nostre immagini mentali, tutto può riuscirci più semplice.
Ma abbiamo provato a costruire in mente la scena che questo esercizio ci chiedeva di descrivere?
Abbiamo riflettuto qualche secondo per farci un’immagine precisa dell’essere al quale stiamo parlando di acqua e bicchieri? Come mai non ne sa niente? È un bimbo Tuareg che fino a oggi ha sempre bevuto latte di cammella dai cavo delle mani, o da una borraccia di pelle? È un alieno? È una persona che ha subito un trauma e ha perso la memoria? È un vecchietto con l’Alzheimer e noi siete la pazientissima badante dell’Est che sta provando a farlo bere e lo rassicura mentre lui si ritrae terrorizzato? È un essere umano dell’anno Tremila, vive in una stazione orbitante e si mantiene in vita assumendo liquidi, proteine e sali minerali attraverso un tubicino? È un angelo? … oppure?”
Io non ho pensato a niente di tutto questo, ma in qualche modo sia Cristina che Irene lo hanno fatto, “romanzando”, se mi consentite il termine, il tema proposto e quindi uscendo dagli schemi. Irene lo ha fatto in modo coinciso ma efficace, attraverso l’esperienza del bimbo e le sue sensazioni, focalizzando, Cristina ha addirittura indovinato uno dei casi ipotizzati nella soluzione e ci ha costruito intorno tutta una scena, col suo stile fluido e armonico ma sempre preciso. (Dio, quanto mi piace il modo di scrivere di Cristina!).
In entrambi i casi i nostri autori sono riusciti ad interpretare nella maniera migliore il senso dell’esercizio, mi spiace soltanto che altri non abbiano avuto tempo o voglia di cimentarsi.