In attesa della sistemazione di questa sezione, a gentile richiesta (mi sono arrivate un paio di lettere minatorie, una anche con una polverina bianca che…), inserisco qui la spiegazione di questo interessante esercizio.

“Alcuni di voi hanno notato qualcosa di strano in quella foto (a parte la cattiva qualità), e sono certo che molti avranno provato un senso di disagio.

In effetti c’è qualcosa che non va.

Il piccolo nel nido è un cuculo. Un brutto uccellaccio pa­rassita e carogna fin da quando esce dall’uovo che la zoccola di sua madre ha deposto, inosservata dai proprietari, in un nido altrui. Fa la stessa cosa in 15-20 nidi.

Quando nasce, e nasce in fretta, il piccolo del cuculo si sbarazza delle altre, legittime uova e degli eventuali picco­li. nati, schiacciandoli o facendoli cadere fuori dal nido, inganna i genitori adottivi e si fa nutrire da loro. E poiché i genitori adottivi appartengono a specie più minute, poiché in fondo alla gola dell’usurpatore c’è un pattern quasi ipnotico che li obbliga a portare cibo e ancora cibo, e poiché tutto questo è superiore alle loro forze, succede perfino che i po­veretti muoiano dallo sfinimento.

Altro che allegro quadretto familiare.

La foto, a osservarla bene, è disturbante. Se uno non si fa venire un dubbio, perde l’occasione di raccontare qualcosa di ineluttabile e crudele ma, alla fin fine, incolpevole nella sua fatalità. Istinto, competizione tra specie. Il medesimo istinto guiderà i piccoli del cuculo, una volta cresciuti, a mi­grare da soli verso l’Africa, senza nessun adulto a guidarli. Una capacità sorprendente.

Proviamo a riguardare insieme la foto: qualche indizio c’è, no? Come mai quel pic­colino è così obeso e, ancora incapace di volare, appare più grosso dei genitori? Come mai le sue piume sono così diver­se? Come mai se ne sta tutto solo nel nido e ci scoppia dentro?

Spesso le cose che presumiamo di sapere già e quelle che ci aspettiamo di vedere quando osserviamo un’immagine o un evento appannano la nostra percezione, guidandoci verso un’interpretazione viziata da stereotipi. Il nido è una metafo­ra così tenera e universale da impedirci di pensare a niente di men che tenero. I pulcini, i cuccioli, sono per definizione indifesi, e dunque per definizione è l’amore (e non un perfido trucco interspecifico) a guidare gli adulti che li accudiscono.

E qui bisogna fare una digressione e parlare dei bias cogniti­vi: un bias è una valutazione distorta. Un saltare subito alle conclusioni senza curarsi di osservare bene le premesse, riconducendo ciò che si osserva a quanto di (apparentemente) analogo si è osservato in precedenza, o ai pregiudizi (cioè ai giudizi espressi a priori) che ciascuno di noi si porta dietro, o agli stereotipi che stanno, più o meno profondamente, ra­dicati nelle mappe mentali che usiamo ogni giorno per muo­verci nel mondo senza inciampare in ogni gradino e senza sbattere in ogni spigolo e in ogni accadimento.

Saper valutare una situazione al­l’istante sulla base di esperienze passate e possedere un buon bagaglio di giudizi espressi a priori non è un male: se non fosse così, saremmo paralizzati dall’incertezza davan­ti a qualsiasi fenomeno. E, dopotutto, imparare crescendo non è altro che costruire mappe mentali sempre più accu­rate, dettagliate ed esaurienti, arricchire il proprio cam­pionario di modelli di situazioni, persone e problemi e il proprio archivio di informazioni, dati, giudizi e soluzioni.

Tra l’altro, è il possesso di tutta questa roba cognitiva a per­metterci di sviluppare pensiero creativo e insight (illumina­zioni creative), semplicemente combinando e ri-combinando gli elementi in nostro possesso, e quelli che man mano acquisiamo, in configurazioni nuove e appropriate. Se non sapessimo niente, niente potremmo inventare.

Forse ve ne siete già accorti: questo esercizio vi propone di fare l’operazione esattamente opposta a quella suggerita dall’esercizio precedente. In quel caso si è trattato di costrui­re l’immagine mentale di una situazione inesistente per po­terla raccontare. In questo caso si tratta di spegnere tutte le immagini mentali preesistenti di nidi, cuccioli, famigliole e accudimento che possono sovrapporsi a quanto effettiva­mente stiamo osservando. Così ci mettiamo in grado di guardare una scena senza velarla di convinzioni o giudizi pregressi.

Se, quando vogliamo descrivere bene qualcosa non riusciamo a spegnere l’immagine che di quel qualcosa ci siamo già fatti e la propensione a interpretarlo alla luce di quanto già sappiamo è facile che ci perdiamo per strada proprio gli elementi più interessanti.

Il problema nasce quando attingiamo in modo automatico al campionario di modelli, giudizi eccetera che è in nostro possesso, trascurando le evidenze e riducendo anche a forza ciò che osserviamo e presenta elementi di novità (che sarebbe saggio acquisire) a quanto già  sappiamo. O quando immaginiamo un evento o un personaggio per puri stereotipi, escludendone così tutte le potenzialità meno ovvie.

Come si esce dalla trappola dei bias? Non se ne esce mai per intero.

Per certi versi, addirittura, tenersi ben attaccati ai propri pregiudizi favoriti, se questi sono abbastanza forti e vividi, può, per chi scrive, tradursi in un’interessante cifra stilisti­ca. A patto che lo si faccia non per caso o per distrazione ma per scelta, o (credo sia la situazione più frequente) per con­vinzione, e forse per una specie di necessità esistenziale.

Un buon modo per forzare i bias puramente conformisti­ci o pigri è usare il What if? Ne parleremo più avanti, in un altro esercizio

Per preservare la freschezza di sguardo e di percezione che aiuta a descrivere ciò che succede o potrebbe succedere e non ciò che tutti si aspettano, e permette di mettere in­sieme una storia cogliendone le peculiarità che la rendono meritevole di essere raccontata forse conviene ricordarsi bene questa faccenda del punto di vista.

  • Il punto di vista determina sempre quel che, da narratori, possiamo osservare.
  • Non si può non avere un punto di vista: se non lo scegliamo noi, accettiamo il primo che ci capita e non necessariamente sarà il migliore sotto il profilo delle potenzialità narrative. A rendere interessante una vicenda altrimenti banale può bastare anche un punto di vista inedito.
  • Qualsiasi punto di vista presuppone e implica una forma di relazione tra noi e quanto stiamo guardando. Abbiamo scelto la modalità relazionale nella quale ci sentiamo più comodi? Preferiamo identificarci tanto da arrivare a raccon­tare in prima persona quel che succede, o preferiamo darne conto dall’alto della nostra onniscienza di narratori, o ancora, ci piace metterci nei panni di un osservatore terzo? Consi­deriamo che, se scegliiamo una posizione, non potremo occu­parne un’altra. Non nello stesso paragrafo, almeno.
  • Qualsiasi punto di vista implica o esclude una certa tem­peratura emotiva, sia in noi che raccontiamo, sia in chi ci legge e riceve quanto narriamo filtrato dal nostro sguardo. Non è detto che le temperature coincidano e, per esempio, la narrazione gelida e implacabile di una scena cruenta può susci­tare, in chi legge, una reazione emotiva più forte di una fremente profusione di aggettivi.
  • Per inciso: parlando di emozioni narrate, spesso sono i dettagli (e a volte un unico dettaglio a restare impressi nella memoria.
  • Infine: il punto di vista che scegliamo finisce per influen­zare, anche in modo sostanziale, sia le opzioni più strettamente linguistiche sia le chiavi interpretative che il nostro testo offre.

Dunque, siamo realisti per quanto riguarda le nostre capacità mimetiche. Più scegliete di stare vicini alla storia e più è quella a imporci un linguaggio. Possiamo decidere di essere distaccati come un entomologo che osserva uno sca­rabeo, o coinvolti come un parente stretto del protagonista (e, ovviamente, se raccontiamo in prima persona dobbiamo “farci” personaggio) ma comunque ci tocca compiere una scelta. Inoltre, se ci mettiamo dalla parte dell’entomologo raccon­tiamo quanto accade interpretandolo in modo assai diverso da come lo interpreterebbe lo scarabeo (sì, va bene, stiamo tutti pensando a La metamorfosi di Kafka).

Certi manuali d’istruzioni appa­iono così indecifrabili agli utenti perché esprimono il punto di vista del progettista e dell’ingegnere. Certi libri scolastici appaiono così ostici o noiosi perché prescindono dal punto di vista dei ragazzini e ne ignorano la prospettiva.

Anche i testi referenziali, per risultare efficaci, chiedono un intervento creativo. Questo non significa addobbarli di pinzillacchere decorative ma progettarli e scriverli scollandosi da ogni automatismo ger­gale, considerando la prospettiva di chi leggerà e tenendo conto delle sue competenze, cercando strutture logiche e linguistiche semplici e chiare.

Ricapitolando: osserviamo bene. Facciamo in modo di vedere quel che c’è, non quello che ci aspettiamo di vedere. Notiamo i dettagli e le incongruenze.

Siamo consapevoli del punto di vista dal quale stiamo osser­vando, perché sia quando osserviamo sia quando, poi, raccon­tiamo è il punto di vista che abbiamo scelto a determinare in modo implaca­bile quel che possiamo o non possiamo sapere, capire, narrare, prevedere.