Il passato è passato, finito, chiuso.
Non mi è utile rivangare perché quando lo faccio sto male.
Tlin-tlin: è mia sorella.
Mia sorella non lo capisce e continua a mandarmi con il cellulare vecchie foto di famiglia.
Sbircio il dispay: mia madre sorridente mi tiene in braccio, con la mano destra indica davanti a se e io fisso incredulo l’obiettivo.
Dovrei risponderle mandandola al diavolo ma è mia sorella e le voglio bene.
È una persona buona e sembra che su questo pianeta sia l’unica a pensarmi con affetto.
Sistemo la scrivania, spengo il pc, sono le 17, infilo la giacca e sono pronto a lasciare l’ufficio.
Lascio le luci accese per il personale delle pulizie, arriveranno quando tutto qui sarà deserto.
Scendo le scale a piedi, sono dieci piani però almeno mi muovo un poco e non rischio d’incontrare tutti i colleghi in una volta sola, odio il loro desiderio di fuga.
Tlin tlin: arrivo al piano terra in contemporanea con l’ascensore che vomita una decina di impiegati con la fobia dell’orario. Hanno fretta, hanno qualcuno che li attende.
Esco in strada e respiro a fondo. L’aria non è pulita, non puoi pretenderlo da una città così grande.
Però la amo perché qui è facile confondersi.
È ancora giorno, mi aspettano un percorso in metropolitana e uno con l’autobus; farò una deviazione e stasera arriverò a casa a notte fonda.
Alla fermata della metro mi guardo intorno e aspetto. Cattivo odore.
Lascio sfilare un paio di convogli con il loro carico di corpi pigiarti… e non salgo.
In realtà anche stasera aspetto qualcuno. Un appuntamento con una donna che non lo sa.
Arriverà tra poco, questo è il suo orario. Lavora nel palazzo di fronte al mio ufficio, l’ho studiata bene nelle ore di pausa pranzo al bar d’angolo, la sto analizzando da un mesetto. Ormai so tutto di lei e della sua espressione sempre triste.
L’ho notata la prima volta quando entrò nel locale sotto uno scroscio d’acqua. Zuppa come un pulcino non aveva l’ombrello, il vestito bagnato le aderiva al corpo.
La notai perché quegli occhialoni scuri da sole erano proprio fuori luogo. La avvicinai alla cassa e sbirciai dietro le lenti, avevo indovinato, il mio istinto non sbaglia mai: l’occhio destro era gonfio e nero.
Adesso so tutto di lei. Del suo lavoro di segretaria amministrativa, di suo figlio di sei anni affidato spesso a sua madre o alla vicina di casa perché lei non arriva a casa prima delle sei.
«Chissà se oggi ha mangiato a mensa, è un bimbetto così fragile e inappetente. Sai mio marito è quasi sempre lontano da casa. Sì, un lavoraccio il suo.»
Soprattutto so delle bugie, delle assenze dal lavoro e dei lividi suo corpo. Possibile che nessuno dei parenti o degli amici lo noti? Nessuno fa nulla?
Ma di cosa mi stupisco, è sempre così, è stato sempre così.
Così ho cercato il bastardo, conosco i suoi orari e stasera lo aspetterò. Potrebbe essere la serata giusta.
Eccola, non è una donna appariscente e quella sua aria mesta la fa passare inosservata. Si vede che non ha il sole dentro ma soltanto ansia e tensione.
La seguo e scendo alla sua stessa fermata metro. Adesso è buio, per una volta non maledico l’ora legale. La vedo raggiungere la sua abitazione in una via poco frequentata. Non ci sono telecamere di sorveglianza. Citofona e da dentro le aprono, entra e chiude la porta.
Io mi piazzo all’angolo dell’isolato, lontano dal lampione che occhieggia, e mi accingo ad aspettare qualcuno che faccia aprire il cancello dei garage interni al condominio.
Passa poco tempo e una macchina imbocca la discesa e io mi infilo dietro a lei prima che il cancello si richiuda.
Aspetto nell’ombra che il conducente parcheggi nel box e prenda l’ascensore. Qui non ci sono molti nascondigli così mi sistemo dietro a un pilastro. Le luci a tempo si spengono e io aspetto.
Passano pochi minuti e le luci si riaccendono, il cancello si apre e una moto rombante fa il suo ingresso nel garage. Non è lui.
Inizio a spazientirmi, stasera il porco è in ritardo.
Si spengono ancora le luci per riaccendersi subito dopo. Arriva la Fiesta nera. È lui.
Ho l’adrenalina al massimo
Mi infilo il passamontagna e i guanti di lattice. Si apre la saracinesca del box e la Fiesta parcheggia dentro. Io la seguo.
Il porco scende e si accorge di me. Mi guarda stupito. Sono un esperto di arti marziali e non è difficile atterrarlo, non gli do nemmeno il tempo di urlare. Sento la sua paura ma non voglio pensarci altrimenti i ricordi mi avvolgeranno e non mi piacciono i ricordi. Con la mano sinistra gli blocco il mento e spingo in alto la testa, il suo collo è libero. Con la mano destra lascio che il taglierino incida la carne proprio sotto il pomo di Adamo.
Lui accenna a gridare ma non lo farà. Spingo con forza e tornano i lampi dei ricordi “mia madre che urla, mia madre livida di botte, mia madre con la bocca piena di sangue con mia sorella in braccio e io… e io”
Affondo il taglierino nella gola con una facilità che mi stupisce ogni volta. Sono rapido e veloce e anche stavolta non mi sporco.
Sento quel corpo che si accascia, i suoi muscoli che si rilassano come un palloncino che perde aria.
Lo lascio in terra e senza degnarlo di uno sguardo mi giro verso l’uscita.
Stavolta è stato davvero facile.
Esco dal piccolo box facendo scendere la serranda su quella scena. Tra poco sarà studiata, analizzata, fotografata; conosco già, niente di nuovo.
Mi piazzo di nuovo dietro il pilastro, al buio e tornano i ricordi, quelli che cerco di cancellare ogni volta che vedo una donna violata. Vorrei dimenticare ma non me lo permettono.
Finalmente riesco a uscire. Infilo in tasca il taglierino con i guanti, e poi ci piazzo pure le mani. Ho tasche grandi io. Ci ficco dentro i ricordi.
Mi incammino verso la fermata della metropolitana respirando appieno quest’aria sporca.