Odore di cordite nell’aria, due persone sono distese a terra al centro della piazza.

Asfalto bagnato che luccica. Concitazione. Vedo gente correre in lontananza, uno, due, tre spari, sembrano colpi di pistole per bambini.

A pochi passi da me un poliziotto carica un fucile, infila due cartucce e chiude il caricatore con uno scatto secco.

Vedo attraverso il vetro di una macchina due uomini muoversi lentamente contro il cielo grigio.

Un agente in borghese inginocchiato dietro un’altra vettura impugna un revolver a tamburo e studia i movimenti dei due cercando di non esporsi. Prova ad alzare la testa e a spostare l’arma in linea di tiro ma esplodono altri colpi e scintille sprizzano dal muro dietro di lui, poco sopra la sua testa.

«Cazzo!» esclama, e si butta giù.

È affannato e mi guarda, fa una smorfia, poi riprende il controllo del respiro e si sposta cautamente a sinistra.

Ho l’impressione che la scena si svolga a ritmo rallentato. Tutti cercano di capire cosa faranno gli altri e si muovono in silenzio, cercando le posizioni migliori.

Alzo lo sguardo e vedo alcuni piccioni osservarci dal bordo della grondaia, indifferenti al trambusto.

Il silenzio che si protrae da alcuni minuti rende la tensione lacerante.

All’improvviso la portiera di un’auto che sbatte. Rumore di un motore che urla impazzito, stridìo soffocato di gomme sul bagnato, spari, un urto violentissimo che sembra un’esplosione, gemito di metallo lacerato.

Ancora spari, poi silenzio.

Passano secondi che sembrano minuti, vedo gli uomini alzarsi e dirigersi verso i rottami della vettura, guardinghi. Parlano tra di loro e poi tornano verso di me. Uno mi vede e mi indica all’altro:

«E di questo cosa ne facciamo?»

«Cosa vuoi farne? Aspetta che il medico faccia il referto e poi fallo portare via con gli altri!»

Sì, sono morto.