HEIMAT 2 – CRONACA DI UNA GIOVINEZZA, DI EDGAR REITZ  C’è un motivo se gli anni di Fuori Orario, e del grande Enrico Ghezzi, mi sembrano oggi così lontani: non ho più trovato quella magia, quella forma di ipnosi che mi portava a starmene seduto per ore, la notte, di fronte a un programma di RaiTre. Ne sono passati una quindicina, ma nella mia mente è quasi un secolo. E ancora più distante mi appare la saga di Heimat, come un capolavoro straordinario, irripetibile, legato a un mondo ormai sommerso. Heimat era la storia di una famiglia, e di una cittadina tedesca – Shabbach – che fatalmente si intrecciavano con gli orrori della Storia. Il secondo capitolo della serie proseguiva invece negli Anni Sessanta. Qui Reitz metteva in scena la vita, gli amori, i sogni e le follie di un gruppo di artisti, alle prese con la Politica e una difficile – forse impossibile – realizzazione di se stessi.

 

Un lungo film in bianco e nero, che chiunque dovrebbe guardare, non fosse altro per capire realmente cos’è il romanzesco; cioè un lento fluire del tempo, nascosto e quasi impercettibile, fino alla completa trasformazione di ogni personaggio. Nulla a che vedere con i libri di oggi, tutta trama e velocità. Qualcosa che si può accostare, forse, solo a un’opera di Kundera, o certi scorci di Garcìa Marquez. In quelle scene, dense di dialoghi, sembrava non accadere nulla, se non un dramma psicologico, e invece appariva l’essenza di una generazione. Una cronaca di una giovinezza appunto, così diversa dalla mia, e da quella dei miei coetanei. Inutile fare raffronti: troppo diverse le due epoche, per poterle veramente confrontare. I giovani di quegli anni si vedevano come parte di un insieme, e volevano cambiare il mondo attraverso la Politica. Noi invece – ormai non più così giovani – non abbiamo mai fatto gruppo. Siamo rimasti soli; e abbiamo preso il mondo come una realtà fissa, ineluttabile. La torta era quella, si trattava solo di mangiarne la fetta più grossa. Insomma, entrambi abbiamo commesso errori colossali, forse irrimediabili.

Penso che la storia dei Sessantottini – quella che è arrivata fino a noi – sia così triste proprio perché è stata narrata da sconfitti, che invece di accettare la sconfitta sono passati subito sull’altra sponda: cioè l’edonismo e il puro egoismo – la parte più marcia dei mitici Anni Ottanta. E dunque la loro storia si è subito intrisa di stupidità, di trionfalismo, di un retorico e inutile parlarsi addosso. Ma c’è stato anche del buono in quegli anni. E guardando Heimat non posso fare a meno di provare una terribile nostalgia. La voglia di pensare che avremmo potuto fare meglio, cambiare qualcosina, se solo non ci fossimo scannati fra di noi; se non avessimo strisciato per un trenta o un posticino in banca, un cellulare o una macchina nuova. Piccole vittorie, destinate a produrre colossali fallimenti. E allora torna la Sehnsucht. Sentimento falso finchè si vuole, ma anche pieno di magia. D’altronde perché dovremmo andare al cinema, o leggere libri, se non per ritrovare un tempo perduto? E in questo senso Reitz è essenziale. Forse è molto più grande di Proust.