Da qualche tempo, tutte le mattine, incontro una signora alla stazione di Monterotondo. Io vado verso Fara Sabina dove lavoro in un centro per disabili. Invece lei si dirige verso Roma. E’ una donna piuttosto elegante, alta, magra, con lunghi capelli  di colore tiziano che le ricadono sulle spalle. Istintivamente mi è simpatica, perché somiglia molto alle bambole Barbie, con le quali giocavo da bambina. E’ una donna che mi incuriosisce molto, vorrei fare la sua conoscenza, ma non so come fare per avvicinarla. Noto che anche lei mi osserva a lungo, ma nessuna delle due pronuncia un saluto o fa qualcosa per fare conoscenza. Ma un giorno, finalmente, colgo al volo l’occasione per scambiare con lei quattro parole. La vedo all’ingresso della stazione carica di buste della spesa. Ad un tratto inciampa e tutta la frutta rotola sul marciapiede. Vado subito in suo soccorso e l’aiuto a sistemare la spesa nelle altre buste.

“Non so come ringraziarla” mi dice “Lei è molto gentile.”

“Ti prego dammi del tu. Come ti chiami?”

“Nicoletta e tu?

“Gianna”

Mentre guardo meglio il suo volto noto che ha un’ematoma all’occhio sinistro.

“O mio Dio!” esclamo “cosa hai fatto all’occhio?”

“Ho sbattuto contro lo stipite della porta di casa”

“Mi dispiace. Vai a Roma?”

“Si, vado al lavoro ma anche a trovare mia figlia disabile che alloggia in una casa famiglia. Mio marito ha voluto così e qui a Monterotondo non ho trovato una sistemazione per lei.”

“Che lavoro fai?”

“Faccio la commessa in un negozio di complementi d’arredo a viale Libia.”

“Io lavoro in un centro diurno per disabili a Fara Sabina. Ma sono tutti maggiorenni.”

“Mi fa piacere. Adesso però ti saluto altrimenti perdo il treno. Ciao.”

“Ciao” rispondo.

I giorni seguenti ci vediamo sempre alla stazione e ci intratteniamo a parlare dei treni che causano molti problemi di trasporto, del caldo che si fa sentire anche se non siamo ancora in primavera e di quanto è diventata cara la vita. Lei dice di abitare a Monterotondo vecchio per risparmiare.

“Io sto a via Monte Pollino.”   Le rispondo  “Ho il vantaggio di essere molto vicina alla stazione .“

Così tra una parola e l’altra, nel giro di poco tempo nasce tra di noi una maggiore confidenza. E presto diventiamo molto amiche. Quando lei rientra presto da Roma andiamo a fare la spesa insieme, ci tratteniamo per un aperitivo al bar e, qualche volta, andiamo a casa mia e ceniamo insieme. Lei è entusiasta di questo mio piccolo appartamento composto di due camere, cucina e bagno. Lo trova molto intimo e accogliente. Lei parla molto della figlia, mi dice sempre che vuole che io la conosca. Ma poi non troviamo mai il tempo. Invece del marito, non parla mai. Così  una sera incuriosita le domando:

“Nicoletta, ma tuo marito a quest’ora dove va?”

“Scusami Gianna ma in questo momento non ne ho voglia di parlarne.” Dice triste e misteriosa.

E’ da tempo che ho notato che l’argomento marito per lei è un tabù.

I giorni seguenti non la vedo più in stazione. Provo a telefonarle ma non mi risponde. Penso:

“Forse sono stata troppo invadente a domandarle del marito. Le passerà.” Mi dico.

Però mi dispiace non vederla più e comincio a sentirmi giù di morale.

Una mattina, difatti,  non ho voglia di andare a lavorare. Così prendo un permesso e mi dirigo al parco Don Pugliesi che si trova proprio sotto casa mia.  E’ una bella giornata ed è piacevole passeggiare tra i prati. Appena varco l’ingresso al giardino vedo Nicoletta seduta a una panchina. Mi avvicino contenta di vederla ma noto che ha un braccio rotto:

“E adesso cosa hai fatto?” Le dico.

“E’ stato mio marito.”

“Tuo marito?” Rispondo inorridita.

“Si. Proprio mio marito.” Risponde con rabbia. “E’ stato sempre lui a causarmi l’ematoma all’occhio. Ti ricordi? Quando ci siamo conosciute lo hai notato subito. Quella volta mi ha dato un pugno.”

“Siediti.” Aggiunge “Tu volevi sapere di lui. Ti racconto la mia storia.”

“Ti ascolto volentieri. Sono proprio curiosa di sapere quali sono i motivi che spingono un uomo ad agire in questo modo.”

“Mio marito Ettore,” dice Nicoletta “quando ero incinta di Zoe, circa tredici anni fa, era al settimo cielo. Era euforico, felice e fu lui a decidere il suo nome quando si seppe che era una bambina. Per lei comprava peluche, pupazzi, bambole e molti altri giocattoli. Ma quando Zoe nacque, per Ettore, fu una doccia fredda. Quando vide che Zoe aveva gli occhi piccoli come due fessure, la nuca piatta e i piedi storti, capì a cosa alludevo quando gli dicevo che Zoe era un po’ diversa. Quando accennavo a parlarne durante la mia gravidanza mi metteva subito a tacere, così sembrava non dar peso a questo fatto. E io pensavo che non lo ritenesse un problema come non lo era per me. Invece per Ettore avere una figlia disabile fu proprio una tragedia. Quando il  primario dell’ospedale ci disse che Zoe era affetta dalla sindrome di  Down, Ettore si prese la testa tra le mani e cominciò a piangere.  Mio marito la rifiutò fin dal primo giorno. Provava vergogna per lei tanto che voleva nasconderla agli occhi dei suoi amici e parenti.

Con il tempo il suo rapporto con Zoe non migliorò e per il dolore, dopo il lavoro, faceva il manovale, iniziò a frequentare bar malfamati dove andava ad ubriacarsi. Quando rientrava a casa barcollante, per ogni più piccolo problema tra di noi, si scaraventava su di me con cattiveria. Mi tirava i capelli e mi dava calci e pugni perché mi riteneva responsabile della condizione in cui si trovava Zoe. Urlava come un pazzo dicendo :

” Zoe somiglia al tuo cugino disabile. La  tua famiglia è  marcia, tarata. Non ti dovevo sposare. “

E non smetteva di picchiarmi. Io non riuscivo a reagire. Ero diventata la sua vittima. Ad un certo punto, Ettore, volle che allontanassi la bambina da casa perché non riusciva  neanche più a guardarla ora che era diventata più grande. Io pensai che era meglio così. Zoe non doveva più assistere a queste scenate. Tanto più che, presto,  anche i servizi sociali sarebbero intervenuti per allontanarla da noi. E’ così che oggi Zoe si trova in una casa famiglia, come ben sai.”

“A quanto pare, tra di voi, le cose non sono migliorate.”

“Per niente. E’ sempre ubriaco e per la più piccola cosa storta mi prende a botte.”

“Devi denunciarlo.”

“Non ce la faccio, Gianna. Tra di noi si è instaurato un rapporto vittima e carnefice. Ho bisogno di lui, capito?”

“Ma che dici! Lo pensi tu. Vedrai che starai benissimo senza tuo marito. Perché non vieni a stare un po’ da me? Anche se ci conosciamo da poco, vedrai che ci troveremo bene.”

“Ci penserò, grazie” risponde Nicoletta.

I giorni seguenti non la vedo in stazione e mi preoccupo. Ma una mattina fa la sua comparsa trascinando una grande valigia. Viene verso di me e sorridente mi dice:

“Ho pensato a lungo alle tue parole e ho deciso che vengo a  stare da te. E’ sempre valido l’invito?”

“Certamente. Ora  ti  vieni a sistemare a casa mia. ”

Insieme ci dirigiamo verso via Monte Pollino. Lei  dice che è molto contenta di venire a vivere in questa casa che le è sempre piaciuta tanto. Così cominciamo la nostra convivenza. In realtà ci vediamo solo la sera perché  andiamo a lavorare e lei va anche da sua figlia. Ma insieme  trascorriamo delle ore piacevoli. Cuciniamo delle buone cene, sistemiamo la cucina, parliamo a lungo e, qualche volta, vediamo dei film in televisione. Ma una sera, mentre io e Nicoletta ci stiamo scambiando le nostre opinioni su un film appena visto alla TV, suonano alla porta. Non aspettiamo nessuno. Guardo Nicoletta:

“Chi può essere a quest’ora?” dico.

Vado ad aprire e mi trovo di fronte un uomo trasandato e con la barba incolta. Faccio per chiudere ma lui infila il piede fra lo stipite e la porta e dice:

“Sono il marito di Nicoletta, voglio parlare con lei. So che si trova qui.”

Nicoletta intanto mi raggiunge:

“Scendo un attimo, Gianna, tu aspettami”

Nell’attesa mi preparo un caffè e mi metto a leggere un giornale. Ma il tempo passa e Nicoletta non torna. Sono molto preoccupata. Decido di andare a cercarla, anche se non so dove. Invece appena esco dal portone, poco distante, vedo un gruppo di curiosi intorno a un’ambulanza, più in là la macchina dei carabinieri dove siede Ettore ammanettato. Mi precipito e Nicoletta è sdraiata sul marciapiede. Faccio per chinarmi su di lei ma gli infermieri mi bloccano, poi stendono un lenzuolo bianco sul suo corpo. Balbettando chiedo:

“E’ morta?”

“Si, signora. E’ morta.” Dice un infermiere.

Una signora anziana mi viene vicino e inizia a parlare in maniera concitata:

“Li ho visti. Urlavano. Poi lui ha iniziato a darle calci, pugni e spintoni. Lei è caduta e ha battuto la testa sul marciapiede. Non ho potuto prestarle aiuto ma ho chiamato subito i carabinieri. Sono troppo vecchia e in giro non si è visto nessuno. Ad un tratto, è passato un signore che è riuscito ad acciuffare l’uomo. Ma per la donna non c’è stato niente da fare. Come mi dispiace! Deve marcire in galera questo delinquente. Ma chi era, il marito?”

Non rispondo ma la ringrazio. Poi salgo in casa mi accascio sulla sedia dove poco prima era seduta Nicoletta e inizio a piangere.

Al funerale di Nicoletta c’è tanta gente che non ho mai visto. Ma tra la folla, vedo una signora che mi sembra di conoscere. Anche lei mi guarda e si avvicina.

Mi chiede “Lei è Gianna?”

“Si” rispondo.

“Io sono la sorella di Nicoletta, mi chiamo Roberta. Abito a Milano, ma quando sono venuta a Monterotondo ci siamo viste al bar Palladiun, ricorda?”

“Si, certo, adesso ricordo.”

“Io non so come ringraziarla per quello che ha fatto per Nicoletta. Noi parenti lo abbiamo sempre detto a mia sorella di stare alla larga da quell’uomo. Ma lei ne è stata completamente soggiogata.”

“Senta” le chiedo “E Zoe?”

“Vado a trovarla domani. Alla casa famiglia stanno cercando, tra i parenti, un eventuale affidamento.”

“Posso venire con lei? Mi piacerebbe conoscerla.”

“Certo, certo. La vengo a prendere io. Abita a via Monte Pollino. Così poi, andiamo direttamente verso la via Salaria.”

“Grazie.”

“Allora, arrivederci.”

La mattina dopo, con la macchina di Roberta, raggiungiamo Roma. Andiamo verso Forte Monte Antenne e alla fine della salita vedo la casa famiglia che si chiama “Tenera età”. Citofoniamo e ci viene incontro una signora del personale.

“In cosa posso esserle utile?” Ci chiede.

“Sono la zia di Zoe e lei è una mia amica. Siamo venute a trovare la bambina” risponde Roberta.

“Prego, accomodatevi. Vi accompagno dalla coordinatrice.”

Così percorriamo un viale circondato da aiuole in fiore e presto mi  rendo conto che la struttura è molto confortevole. Si entra in un ampio salone dove si trovano gli uffici. Le camere delle ragazze, ci spiegano, sono al piano superiore. Ma io resto colpita dall’ampio giardino che circonda la casa.

“E’ bello qui, vero?” dice Roberta e aggiunge: “Io ci sono già stata con Nicoletta, ma non mi ricordo di quanto tutto fosse così carino.”

La coordinatrice ci accoglie sorridente e ci dice che loro non hanno ancora parlato con Zoe della morte di sua madre.

“Quindi, mi raccomando, non dite una sola parola sul suo conto. E’ compito nostro prepararla a ricevere questa brutta notizia.”

Ci accompagnano ai laboratori. Le bambine sedute intorno a un tavolo che disegnano e colorano. Quando ci vedono, nessuna si muove, tranne Zoe che sorride, si alza e abbraccia la zia. Trovo che è proprio graziosa così piccolina e grassottella. Mi colpiscono i suoi occhi azzurri come il cielo. Roberta le dice che sono una sua amica e Zoe contenta quasi urlando dice:

“Venite a vedere.”

E ci mostra il bellissimo disegno che sta facendo.

L’operatrice dice che è anche molto brava con la creta e la plastilina con cui modella delle belle statuine.

“Se tornate vi faccio vedere un elefantino che ho fatto. Adesso si sta asciugando. Lo voglio far vedere anche alla mia mamma. Perché non viene?”

Nessuna delle due pronuncia una sola parola al riguardo. Poi, ad un tratto, Zoe si alza, e urlando di gioia dice:

“Adesso è ora di giocare!”

E ancora ignara di tutto si precipita verso il giardino dove inizia a correre felice tra i prati.