La nostra favola preferita si chiama “Giacomino ed il fagiolo”. Per nostra intendo mia e di mio fratello che, neanche a farlo apposta, si chiama Giacomo. E’ la storia di un bambino prigioniero di una strega cattiva che, per sfuggire alle grinfie di quest’ultima, pianta nell’orto dei fagioli magici, dono della sua fata madrina. Da questi si sviluppa una pianta altissima, le cui foglie sono robuste come scale. Giacomino un bel giorno, stufo delle angherie della strega, inizia a salire quei gradini piano piano… ad uno ad uno… e, finalmente libero, si ritrova in cielo, in un magico mondo popolato da dolcissime fate e giganti buoni. Anche mio fratello vorrebbe avere una manciata di quei fagioli per raggiungere nostro padre che da qualche mese si trova in cielo, forse in paradiso o in un luogo qualunque dell’universo. Giacomo sa che lui non potrà più tornare sulla terra ma vorrebbe un ultimo abbraccio e due parole dolci di conforto per la nostra mamma che è sempre tanto triste.

Non avendo un albero che arriva sino al cielo, Giacomo si accontentava di quello bello robusto che abbiamo nel nostro giardino e ci saliva su saltellando da un ramo all’altro con l’aiuto di una corda, come se fosse una scimmia nella giungla, incurante delle proteste e della preoccupazione della mamma. Un giorno Giacomo si dimenava allegramente tra i rami dell’albero con le sue scatenate acrobazie mentre io lo guardavo dal basso, urlando e giocherellando come al solito. Ad un tratto, non so spiegare né come né perché, (in realtà avevo le cuffie sulle orecchie…quelle belle rosa che mi aveva regalato papà per il compleanno) ebbi la sensazione che stesse succedendo qualcosa di strano. Udii uno strano rumore, sordo ed inquietante,come un tonfo. Alzai lo sguardo per cercare  il mio scimmiesco fratellino ballonzolante sui rami ma non lo vidi. Quando decisi di circumnavigare l’albero alla ricerca del fratello smarrito (sempre con la testa rivolta in  aria) mi accorsi che era in un angolo, riverso per terra, come un fantoccio. Inizialmente pensai ad uno dei suoi soliti stupidi scherzi ma poi mi accorsi che c’era qualcosa che non andava. Corsi in casa più veloce della luce a chiamare la mamma la quale era al telefono e non si curava di ciò che le stavo dicendo, anzi mi intimava di tacere. Quando finalmente riuscii a trascinarla fuori, alla terribile vista di Giacomo pallido e privo di sensi, cominciò a correre come una scheggia impazzita e ad urlare a squarciagola per chiamare aiuto. In breve accorsero i vicini, l’ambulanza, medici, infermieri e Giacomo venne portato via tra il frastuono delle sirene ed il vociare della folla incuriosita. Io, bambina ingenua, mi aspettavo che la sera mio fratello sarebbe tornato a casa per cenare insieme, per abbracciarmi e leggere le nostre storie ma non fu così per un bel po’ di tempo.

Un giorno finalmente mia mamma si decise a portarmi con sé in ospedale a trovare Giacomo. Io ero felicissima e non vedevo l’ora di vederlo. Al mio arrivo mi accolse una dottoressa, mi strinse la mano e si presentò come se io fossi un adulto di tutto rispetto, mi rimpinzò di caramelle e mi spiegò che Giacomo non era più come lo ricordavo io. Adesso era un bambino disabile, cioè non riusciva a fare più nulla da solo, aveva bisogno di aiuto in tutto, aveva bisogno di me, sua sorellina minore. Quando mi portò in camera stentai a riconoscere il mio Giacomo in quel bambino inerme: non si muoveva  più, non parlava, aveva un tubicino collegato allo stomaco per nutrirsi, aveva un affarino sulla gola che gli permetteva di respirare. Nessuno sapeva con certezza quanti e quali contatti avesse col mondo reale e quali stimoli arrivassero  al suo cervellino ferito. La dottoressa mi disse: “ coraggio Gertrude, parlagli. Vedi come ti osserva? Sembra che ti segua con lo sguardo!! Forse ti riconosce!!” Così, da quel momento in poi, entrai in contatto con quel fratello sconosciuto e mi abituai a lui. Gli parlavo sempre e comunque, anche se non ricevevo risposte, giocavo come se fosse un neonato e lo accarezzavo, ed ogni giorno gli raccontavo la favola di Giacomino e il fagiolo, mentre lui mi guardava fisso, a volte persino abbozzando un qualcosa di somigliante ad un sorriso.

La dottoressa mi fece conoscere anche gli altri bimbi ricoverati, sia per distrarmi un po’ sia perché come diceva lei in un quasi  incomprensibile “medichese “ (o linguaggio dei dottori) interagivano di più rispetto a mio fratello ed io  avrei potuto contagiarli con la mia allegria, regalandogli un sorriso. Così conobbi Elisa con la testa fasciata perché l’avevano operata, Giulia col suo visino triste senza capelli, Riccardo che si muoveva veloce come un pazzo con la sua carrozzina, Luca che riusciva a parlare attraverso un computer muovendo solo gli occhi. In breve, quel piccolo mondo era diventato il mio. Ogni giorno uscivo da scuola trotterellando perché sapevo che dovevo andare dai miei amici speciali ed ogni giorno mi arricchivo di qualcosa che mi donavano loro;  un abbraccio, un sorriso, un gioco nuovo.  Un giorno, accompagnati dalle maestre, portai con me tutta la scolaresca e fu bellissimo ritrovarsi  uniti nei sorrisi, nei giochi e nel calore degli abbracci. La dottoressa era emozionata, ci disse che eravamo bellissimi, sorridenti e colorati, nel nostro girotondo di umana solidarietà. Noi bimbi fortunati aiutavamo quelli che facevano fatica a muoversi o a parlare e non notavamo le differenze tra noi e loro perché nella nostra semplicità dell’essere bambini stavamo bene insieme.

Mio fratello Giacomo aveva una disabilità gravissima; come dicevano i medici era in stato vegetativo, cioè il suo cuoricino batteva, i suoi organi funzionavano ma il suo cervello non era in grado di mandare i comandi alle braccia, alle gambe, alla bocca, agli occhi. E poi viveva in un mondo tutto suo, staccato da quello reale.  Io facevo ciò che mi diceva la dottoressa; gli parlavo di continuo, e gli dicevo: “ se mi vuoi rispondere SI chiudi due volte forte forte gli occhi” e poi lo osservavo, ma non succedeva nulla. La dottoressa mi diceva di insistere, dovevamo stabilire un codice comunicativo, così si dice in “medichese”.

Un giorno portai un fagiolo e dissi a Giacomo che era magico.  Lo misi in un vasetto, coperto da un batuffolo di cotone inumidito ed ogni giorno lo curavo con amore, come se davvero in quel vasetto potesse crescere un albero gigantesco. Quando, inaspettatamente, comparvero dei teneri germogli, lanciai un urletto carico di stupore e felicità e mi rivolsi e a mio fratello; “ Giacomo, hai visto? Il fagiolo magico funziona! Sta crescendo una bella robusta piantina, proprio come quella della favola”. Egli mi guardò e per la prima volta strizzò forte forte gli occhi per due volte, per dirmi finalmente quel magico SI che tutti aspettavamo da tempo. Quello fu il giorno più bello della mia piccola meravigliosa vita, fatta di solidarietà , semplicità e piccoli gesti autentici.

CATERINA RIZZI