Mi piace rimanere attaccata alle tradizioni, e una di queste è la pizza di Pasqua, eh già si chiama proprio così, pizza. Certo per le nostre mamme era una faticaccia maneggiare quell’enorme impasto, ne facevano talmente tante. Quasi si sfidavano tra di loro.

“Io ho impastato 15 uova” vociavano tra di loro.

Iniziavano la sera a oliare le teglie di rame, grattare limoni e preparare tutti gli ingredienti, dentro una grande e pesante insalatiera di ceramica bianca, veniva impastato il lievito madre e la mattina traboccava già sulla spianatoia, con il suo odore acido. Di buon ora tutto veniva lavorato, la mamma immergeva le mani, amalgamava, l’impasto arrivava a metà braccio, faticava, poi staccava i pezzi e li sistemava nelle teglie.
Dopo la fatica arrivava l’ansia della lievitazione, ore e ore le teglie giacevano coperte davanti il camino, sembravano bimbi al calduccio. Non si potevano lasciarle da sole, dovevano essere custodite, girate man mano verso il calore, dovevano raddoppiare di volume, e in casa  si sentiva già quell’inconfondibile aroma di anice. Nel pomeriggio durante la cottura tutti i vicoli del paese profumavano di bontà. Appena sfornate, belle alte, con uno straccetto lucidate sopra da una passata di latte, un panettone primaverile. Sì, ma non era finita: si doveva ancora attendere, si poteva solo immaginare il loro gustoso sapore.
Mancava il rito della benedizione del sacerdote.
La mattina di Pasqua in bella vista, pronte sul tavolo, contornate da uova sode e salame, iniziava la solenne colazione.