Note stonate e urla di bimbi in cortile accarezzavano l’aria e colmavano euforiche la leggerezza dei tempi.
Tempi d’estate, di asfalto cocente e giardini mai del tutto puliti, ma assolati abbastanza da dipingere di verde e azzurro intenso lo sguardo e l’anima dei ragazzi come lei.
Non il suo. Lei pensava solo alla fuga.
Ma quell’anno Sofia non poteva approfittare, come sempre, dell’ospitalità dei familiari che ancora risiedevano a Napoli, la sua amata città.

Sì, erano gli ultimi giorni di scuola, ma l’esame di maturità era alle porte. E così quell’anno le vacanze sembravano ancora lontane un secolo.
Ma poi, dopo quel terribile scoglio, sarebbero state le più lunghe di sempre. E allora per mesi sarebbe stata lontana da quel luogo inospitale, dove il suo accento del sud giungeva alle orecchie dei coetanei come una diversa, quasi folcloristica cantilena, tanto da convincerla a parlare il minimo indispensabile. E per certi versi era vero, Sofia di sentiva così: diversa.

Ed era così da quando per la prima volta aveva messo piede in quella casa che si affacciava sulla via Salaria, in quel tratto che si protrae ben oltre il Grande Raccordo Anulare. A circa 30 chilometri fuori Roma, oltre l’aereoporto militare dell’Urbe, oltre i luoghi di raccolta delle prostitute. Inutile tentare di quantificare quella distanza in unità di misura differenti. Perché a determinare la quantità di tempo – per dirne una… – necessario a raggiungere la capitale, partecipavano una serie tendente all’infinito di variabili. Come l’orario. Come il mezzo utilizzato. Come il giorno della settimana. O la meteorologia…

Ma come era finita lì Sofia, nota ai pochi conoscenti, che di amici non si può parlare, come “Uè Sofì”? Non proprio un bel modo: suo padre aveva perso il lavoro. Sua madre da allora aveva pianto ogni notte. Poi finalmente era spuntato un posto per magazziniere alla Würth di Capena, fuori Roma, sulla via Tiberina. E così i suoi scelsero di lasciare la bella Napoli per andare ad abitare a Monterotondo, abbastanza vicino al nuovo luogo di lavoro, perché lì si trovavano il liceo Classico, lo Scientifico e addirittura il Linguistico: che era indubbio, la loro unica figlia avrebbe fatto il Liceo per ambire ad un mestiere ed una vita diversa dalla loro.
Sofia fu sradicata dai luoghi amati della sua infanzia che aveva circa undici anni. E non era riuscita proprio ad amarla quella cittadina di provincia, che non offriva attrazioni, né bellezza, almeno a suo dire. A parte il sovraffollamento di richiami Garibaldini, il piccolo centro storico cui si accedeva in salita attraversando l’Arco di San Rocco, e la gradevole vista che si poteva apprezzare dalla collina in cui si ergeva il palazzo torrito del Comune, e da dove, nelle giornate nitide, si poteva con un giro d’occhi afferrare il marrone delle dolci montagne sabine, sulle quali a tratti si addensavano agglomerati di case, che da lontano potevano sembrare tanti presepi: Sant’Angelo Romano, Castel Chiodato, Montorio… E pensare che in molti da quei paesi venivano proprio a Monterotondo per passare un po’ di tempo libero.

Ma forse, forse era lei che non le aveva cercate, o sapute trovare, le giuste occasioni di amare la sua nuova città. E a giudicare dai volti sorridenti dei neo-sposi locali, che giorno dopo giorno guarnivano le vetrine del fotografo Benzi, sul corso di negozi principale, dovevano esserci molti motivi per essere felici da quelle parti. Di certo, di certo le mancava il mare, il golfo, il Vesuvio, il suono della sua terra.

Sofia aveva frequentato, sempre sulla soglia della sufficienza, cinque anni del Liceo scientifico Peano, e trovato lì, su quei banchi, un’amica. Di quelle destinate ad esserlo in qualche modo per sempre, quali sarebbero stati i percorsi a venire o gli inevitabili momenti di incomprensione. Nonostante tutto.

Ma per il resto la ragazza era un fagotto di timidezza. Si nascondeva in maglioni taglia xxl per evitare gli sguardi curiosi di chi l’avrebbe trovata, senz’altro, troppo in carne.
Svegliarsi la mattina poi, era un vero dramma. E nonostante il motorino sgangherato che suo padre le aveva regalato per vederla sorridere un po’ di più – e che in dieci minuti le permetteva di raggiungere direttamente il portone della scuola – arrivava sempre all’ultimo momento, indossando tute improbabili, con le occhiaie sottoterra, il broncio e le righe delle lacrime rapprese sulle tempie perché si ostinava a non portare il casco. Inolte era del tutto incapace di ingerire cibo, almeno fino a una certa ora, che di solito coincideva con la ricreazione.

Facevano differenza due tre tiri di sigaretta: senza quelli la giornata proprio non poteva cominciare. Aveva iniziato ad un concerto in estate, con sua cugina, sul litorale campano, e fin dal primo tiro aveva aspirato, insieme al fumo graffiante nella gola, mille sollievi per i suoi, spesso inspiegabili, turbamenti.

Da quel momento aveva iniziato ad acquistare le sue Diana blu al Bar della Fonte, proprio a fianco alla scuola, e non era mai più rimasta senza.

Questo i suoi compagni di classe lo sapevano bene. L’ingresso infatti era uno dei rari momento in cui accadeva che le rivolgessero la parola, spesso senza troppo successo.

“Uè Sofì, che c’hai na ciospa?”
“Non mi chiamo ‘Uè Sofì’, comunque Sì.”
“…”
“…”
“Beh! Me ne dai una?”
“Compratele.”
“Ma vaff…”

E poi entrava in quella classe, con i maschi coesi, capitanati dallo stronzetto posizionato di vedetta in ultima fila, pronti a farla sentire trasparente fino al momento in cui non avessero trovato qualche spunto per prenderla in giro. Allora d’improvviso diventava visibile: la perfetta caricatura di se stessa.
No, il Liceo non le piaceva. Affatto. E un giorno se ne sarebbe andata per sempre da quel posto di merda. Per sempre. Non aspettava altro.

No, non erano sempre giorni bui. C’erano mattine in cui Sofia acchiappava Linda per il braccio e la trascinava con lei alla volta di Roma. Il cotral, l’autobus arancione che da Monterotondo conduceva alla stazione di Roma Tiburtina, percorreva tutta la via Nomentana in un vero e proprio viaggio della speranza, a tratti a passo d’uomo, tra Mentana, Casali di Mentana, Tor Lupara, Colleverde e finalmente Roma: piazza Sempione, Porta Pia, Castro Pretorio…
A Tiburtina si scendeva, era il capolinea e a pochi passi c’era la “M” della metro B.
Lì il viaggio accelerava: il cambio a Termini, la metro A… e finalmente lo sguardo di Sofia e Linda si apriva sulla bellezza di Trinità dei Monti. Quelle erano giornate meravigliose.

L’unico obiettivo era pranzare con Linda al Mc Donald’s e percorrere a casaccio le vie del centro storico più bello del mondo.

Per il resto del tempo Sofia aspettava soltanto di poter abbandonare le strade eretine – da Eretum, antico e ben più elegante nome del suo nuovo paese di residenza – che dalle parti di casa sua erano costeggiate da case spuntate ad incastro, o per meglio dire, alla “come viene”, in barba a qualsiasi intento regolatorio.
La “Passeggiata” invece si trovava nella zona più bella e curata, ed era il solo vero luogo di ritrovo – a parte un paio di bische e i luoghi dedicati allo sport, che lei proprio non considerava – ma Sofia si vergognava a percorrerla, anche solo per andare a prendere un caffè in uno dei bar presidiati dalle tre comitive, composte di coetanei che neanche conoscevano il suo nome. Ma la sua reputazione sì, quella la conoscevano bene.

In primo liceo aveva ricevuto una discreta accoglienza Sofia: era stata etichettata come “carina”, ed era stata per tre giorni la ragazza di uno della seconda D, un tipetto allegro e capellone di nome Mirko. Che prima aveva fatto l’amico, l’aveva fatta sentire graziosa e accetta, accolta… poi un giorno l’aveva baciata, e in breve aveva cercato altro, “che al sud, si sa, le ragazze fanno sesso prima”. Sofia però non c’era stata.

Mirko l’aveva lasciata senza troppi complimenti. E poi, di lei, aveva raccontato chissà cosa, perché da quel momento la sua vita sociale non aveva avuto più speranza di apertura.

Le vacanze erano invece per Sofia l’occasione di sentirsi normale. Nei luoghi di villeggiatura si può passeggiare da soli, esplorare vicoli e piazze e persino non conoscere nessuno.

Quel quinto anno di liceo fu il migliore per il suo rendimento. Nei primi anni aveva sofferto della insufficiente preparazione ricevuta alle scuole medie di Monterotondo Scalo, la più vicina a casa. La scuola, la Cardinal Piazza, che pure era una struttura di grande qualità – con un bel giardino esterno, la biblioteca, una palestra con un campo regolamentare di basket e addirittura un bellissimo teatrino che aveva accolto spesso Sofia nel ruolo di protagonista – nasceva vicino alle case popolari, ed era frequentata da ragazzi che presentavano bisogni più urgenti di quello di conoscere. Già tenerli in classe era un’impresa.
I professori erano eccezionali. Ma la preparazione di Sofia, alla fine di quei tre anni, non era all’altezza del primo anno di Liceo scientifico.
In quinto però il recupero fu completo. Sofia, superato il gap iniziale, si palesó per la ragazza brillante qual era.

Decise di portare all’esame italiano e storia. Proprio come Gabriele “che c’hai na ciospa…”
E la professoressa Dionisi, il membro interno, stabilì, che i due avrebbero studiato in coppia: decisione che, come immaginerete, ricevette accoglienza ben poco calorosa da parte di entrambi, ed alimentó un’ondata di nuove occasioni per prendere in giro la ragazza.

Gabriele aveva un viso da angelo e il magnetismo di un diavolo. Era sempre troppo allegro, con grandi occhi verdi, e labbra e denti perfetti. Ed era proprio lui il principale fautore del disagio di Sofia, lo stronzo insomma. Cosa che la ragazza non perdeva occasione di fargli notare.
I due proprio non si sopportavano.

Al contrario di Sofia, Gabriele non aveva alcun problema di popolarità, ma molti più problemi nello studio. D’altronde era il capitano della squadra di pallavolo, suonava la batteria in un gruppo molto seguito dalle ragazzine della zona e il resto del tempo era impegnato a cercare fidanzate usa e getta. La fantasiosa Dionisi pensó, quindi, che quello strambo abbinamento avrebbe giovato ad entrambi.

“Uè Sofì, domani passo a prenderti con la moto per andare in biblioteca. Porti tu le sigarette?”
“Vaff… non ti scomodare, faccio una passeggiata.”
“Ma bevi latte acido a colazione?”
“Non la faccio.”
“Forse dovresti…” disse ridendo lo stronzo.

Quella sera Sofia non aveva nessuna voglia di studiare. Né di parlare. Si infiló da sola nel “nuovo Cinema Mancini”, a due sale, la seconda recuperata chiudendo la galleria al piano di sopra. Lo faceva spesso. Amava andare al cinema senza compagnia, anzi quasi non capiva il senso di andarci insieme ad altri. Quando accesero le luci per l’intervallo, qualche posto più avanti, Sofia vide Linda, che si baciava con uno… “Mirko…? Ma che diamine, Linda…”.
Dormì male, ma decise di andare oltre. Anche se si sentì ancora più sconfortata, un po’ di più.
La mattina dopo alle 8 c’erano già 35 gradi, Sofia si incamminò a piedi verso la biblioteca che si trovava al limite del centro storico, abbastanza vicina al palazzo comunale, ma fu intercettata da Gabriele, che evidentemente aveva preso bene la storia dello studio di coppia.
“Ciao Acida.”
“Ciao stronzo.”
“Monta dietro dai, dovrebbe entrarci il tuo abbondante deret… ”
“Wow che termine forbito per una capra… tu continua e ti giuro che studi da solo.”
“O e nse po’ scherzà cco tte!”
“No, infatti.”
“Ma che t’è successo?”
“Fatti i caz…”
“Ok ok, ricominciamo?”
“…”
“Lo prendo per un sì. Allora, Sofia, posso accompagnarti?”
“… Ok.”

Sofia salì e si tenne stretta a Gabriele. Senti il suo calore attraverso il giacchetto, e il profumo dei suoi capelli appena lavati. E poi i suoi muscoli, che erano quelli di un giovane sportivo. E anche se non lo avrebbe mai ammesso, Sofia ebbe dopo tanto tempo la strana sensazione di essere… normale. Ma non era tipo da false illusioni: in fondo lo capiva, lo sapeva bene che in quel momento a lui, a Gabriele, serviva il suo aiuto per prepararsi a superare l’esame di maturità.

All’altezza della biblioteca Gabriele tiró dritto. Ben oltre.
“Ma… hai sbagliato strada!”
“No, ti assicuro che son proprio qui i cornetti migliori di Monterotondo!”
Sofia un po’ finalmente sorrise “ma io non faccio colazione.”
“Giuro che non lo dico a nessuno!”

Studiare con lui fu più piacevole del previsto e anche proficuo in termini di preparazione, per entrambi. Gabriele, con somma sorpresa di Sofia, non era uno stupido, era solo troppo distratto da un’esistenza comoda e perfetta. E invece stavolta, con grande sorpresa di lei, lui si stava impegnando davvero.
Il venerdì pomeriggio di quella settimana, fumando l’ultima sigaretta fuori dalla biblioteca, Sofia lo salutò, per la prima volta senza insultarlo.
“Allora, a lunedì…”
“Uè Sofì… Sofia… ecco volevo chiederti, cosa fai domani?… Stiamo organizzando per andare tutti alle terme di Cretone…”
“…Sì” fece stizzita, “come quella volta di Villa Borghese che poi non è venuto nessuno. Ricordi? Fu davvero strano, eravamo solo io e te… ed io al ritorno sono stata anche male sul Cotral.”
“Già… “ disse Gabriele con una espressione strana “… E dai, non fare l’asociale, ci sarà tutta la classe stavolta!”
“… ok.”
“Passo a prenderti io.”

Quando uscì dallo spogliatoio si vergognava da morire. Cercò di coprirsi alla meno peggio con un pareo.
Linda era seduta vicino a Mirko, sul bordo della piscina più grande e la guardò allarmata.
Sofia le si avvicinò.
“Potevi anche dirmelo…”

Linda guardò verso Gabriele allusiva, lui le era sempre piaciuto.
“Se per questo anche tu…”
“Ma cosa dici? Cosa ti sei messa in testa?”
“Nulla…”
Non fece in tempo a replicare che Gabriele arrivò, e all’improvviso la spinse in acqua. Ma poi le porse la mano per farla risalire. Ed ovviamente Sofia tirò forte facendo leva con il corpo sul bordo piscina, per restituire soddisfatta lo scherzo.
Risero entrambi. “Dio se sei bella quando ridi.” “Cosa?” “Niente.”

Non sapeva, allora, che non avrebbe mai più perso memoria di quell’istante.

Quando risalendo le scale dello spogliatoio, per tornare a casa, con i capelli che ancora rigavano di gocce sulfuree la schiena semi-nuda e un po’ arrossata, lo vide per la prima volta sotto un’altra luce. Per cinque anni lo aveva tenuto a distanza, mandato a quel paese, insultato, ignorato, perché aveva avuto paura di lui.
E invece Gabriele la stava aspettando… e sì forse lo faceva a modo suo, ma lei di certo non si era sforzata di guardare oltre quell’espressione sicura e strafottente. Che ora era svanita del tutto in un lieve tremore.
“Ehi cos’hai? Stai male? Hai freddo?”
“…no.”
Finalmente Sofia capì. Quelle odiate prese in giro, erano un gioco a nascondersi, quella volta a Villa Borghese, non erano rimasti soli per caso… ‘Proprio strani questi maschi, ma in fondo, chi sono io per parlare? – .
E adesso lui aveva deciso: era tempo di scoprire le carte.
Con La maturità alle porte, se non si fosse sbrigato l’avrebbe persa per sempre: non avrebbe mai avuto l’unica occasione che avesse importanza.
E Sofia, niente, quell’estate non ci volle andare a Napoli. Quel giorno iniziò ad amare la sua città.