Paddy, incredulo ed  estasiato, aveva rivissuto all’infinito, nel ricordo, il momento in cui Tina gli aveva preso la mano. Non era accaduto altro, ma questo era stato sufficiente a riempirgli il cuore e la mente. Non che covasse illusioni al riguardo, conosceva troppo bene se stesso e troppo poco le donne, così non s’arrischiava a decriptare i loro codici, come quel contatto spontaneo di Tina, da interpretarsi come un messaggio subliminale o semplicemente scaturito dall’euforia della vittoria di Micky. No, non si sarebbe lasciato intrappolare nella selva dei sofismi sentimentali, che di sicuro vi si sarebbe smarrito, e neppure ne avrebbe parlato con Liam, che il suo giudizio era comunque condizionato dal fatto che Tina era la figlia di Teresa, aveva la metà dei suoi anni, un carattere ingestibile e la tendenza a cacciarsi nei guai.
Saggi consigli che l’amico gli aveva già impartito ma che non avevano prodotto su di lui alcun effetto dissuasivo, se non quello di una leggera umiliazione.
Aveva comunque deciso di non precorrere i tempi, di rimanere in attesa di segnali più chiari, semmai nel futuro ve ne fossero, e questo non per paura di una delusione ma piuttosto di perdere la possibilità di continuare a vederla.

Quella sera, a casa Sanpaoli, s’era festeggiata la vittoria di Micky, anche se Teresa continuava però ad esser contraria alla boxe, che quell’incontro non era andata neppure a vederlo non sopportando la vista del sangue, soprattutto se fosse stato quello di suo figlio, che i segni di quella vittoria li portava addosso, ben visibili nel sopracciglio squarciato e nei lividi sul viso e sulle braccia. Lividi e ferite che invece Micky sfoggiava come medaglie, e che anche quella sconsiderata di Tina esaltava come tali.
La sua figlia maggiore era sempre stata ribelle, forse a causa degli scapaccioni non dati nel periodo dell’infanzia, che è nella tenera età che si raddrizza la pianta, ma sia lei che Tony  (prima che lui iniziasse a lavorare per Mancuso) erano avulsi a qualsiasi forma di violenza, (lei per sensibilità femminile, lui perché  aveva trascorso parte della sua vita ad imbastire alibi a giustificare le inique cinghiate inflitte dal padre per educarlo)  e così le punizioni venivano somministrate solo quando la marachella era davvero grossa. Ma con Tina i castighi non avevano mai funzionato. Con Micky invece si, soprattutto quando Tony, per via del suo lavoro al mattatoio, s’era prima incupito e poi incattivito. Micky piangeva per ogni cosa, una sensibilità esasperata che lo avrebbe reso fragile, vulnerabile, se non fosse stato che Tina gli aveva ceduto parte della sua rabbia. Ma era stata in gamba, però, a non trasformarlo in una sua appendice, a renderlo indipendente dai suoi umori, dalle sue rabbie e dalle sue passioni, e costringendolo  a costruirne di sue. Più che una scelta consapevole era stato un istinto di protezione, non nei riguardi del fratello ma nei suoi stessi.
Fondamentalmente anarchica, Tina, rifiutava ogni forma di costrizione esterna ed interna.

«Micky, non vorrai continuare ancora per molto con questa storia della boxe, vero? Mi avevi detto che in palestra andavi solo per allenarti. Una bugia, a quanto pare».
Teresa, a quelle sue parole, aveva percepito su di sé lo sguardo beffardo di Tina, e così, come colta in fallo, s’era sentita disarmata delle sue ragioni. Micky, invece, le aveva sorriso quasi imbarazzato di non aver voluto nascondere quella sua marachella di cui invece andava fiero, e per la quale consapevolmente era uscito alla scoperto allo scopo di farsi cogliere da lei in flagranza di reato e consegnarle poi in dono la refurtiva.

«Sal e il signor Lo Cascio dicono che sono bravo sul ring e posso fare grandi cose. Dovresti essere anche tu dalla mia parte, mamma» aveva risposto in tono accorato Micky, alzandosi bruscamente da tavola e uscendo dalla stanza. Maria, la sorella minore, piangendo, lo aveva seguito nel cortiletto dove lui s’era rifugiato. S’era seduta accanto a lui che fumava torvo, e lo implorava di non essere arrabbiato con la mamma, che tutta la sera aveva pianto immaginando che, durante l’incontro, potesse accadergli qualcosa di brutto.

«Ti vuole bene, Micky. Ha solo paura che tu ti possa far male».
Erano rimasti seduti uno accanto all’altra, Maria tirando su col naso e lui a fumare. Poi, dopo aver gettato via la cicca, indicando il canestro attaccato al muro l’aveva sfidata: avanti pulce, vediamo se col canestro te la cavi altrettanto bene come con le parole.
Tina aveva seguito la scena dalla finestra, ed ora li sentiva ridere e sfottersi, perché entrambi mancavano il canestro: Micky di proposito e Maria perché non ci arrivava.
S’era allora voltata per dire alla madre che stava sbagliando tutto con Micky, e quella sera era stata particolarmente ingiusta perché lui aveva rifiutato gli inviti a festeggiare fuori e preferito rimanere in casa per far partecipe anche lei di quella sua vittoria. Lui non si nascondeva come aveva fatto il loro padre. Micky non sapeva fingere e neppure gli interessava farlo. E così questo suo agire allo scoperto, alla luce del sole, toglieva a Teresa ogni alibi alla sua ipocrisia.
Non sei in grado di sopportare la verità, mamma. Ma questo non aveva potuto dirglielo perché Teresa era già uscita dalla stanza.

 

«Che ti sei messo a fare il talent scout, ora?».
Brandon Murphy, il grassone dietro la macchina da scrivere nel suo ufficio al  “The Daily Herald”, non la smetteva di ridere fino a quando Jack  Randazzo non gli aveva spianato la pistola sotto il naso.

«Come vedi non ho cambiato mestiere, e adesso alza quel tuo culo grasso e datti da fare. Voglio il miglior bluesman sulla piazza di Chicago, e lo voglio per stasera. Al Blues Serenade abbiamo ospiti d’eccellenza e Lo Cascio non intende deluderli».

«Che fine ha fatto quel piantagrane di Chet Holliday?».

«Quella stessa che farai tu se stasera al Blues Serenade non ci sarà sul palco nessun fottuto musicista nero. Perché deve essere nero! Il miglior nero che suoni blues».

«Cosa me ne viene in cambio oltre a scrivere l’articolo e farvi per di più pubblicità gratuita?».

«In cambio ti viene che se non ti ammazzo potrai continuare ancora a vivere».
E stavolta era Jack Randazzo a non smetterla di ridere.

 

Il Blues Serenade era ancora deserto quando avevano fatto il loro ingresso Brandon Murphy assieme a un negro vestito elegante, con una giacca a due colori e una bombetta. E l’aria guardinga, niente affatto amichevole.

«Mi hai chiesto il migliore bluesman di Chicago, Jack, ed io ti ho portato il più grande di tutti: Simon “Rice” Jackson».

«Lo spero per te e per lui» aveva detto Randazzo senza sorridere. Poi aveva fatto un cenno ad un tirapiedi di perquisirli.

«Questa tua mancanza di fiducia, Jack, mi offende profondamente».
Aveva piagnucolato il giornalista,  ma poi s’era subito taciuto incredulo quando dalle tasche del bluesman erano spuntate fuori una fiaschetta di whisky, un coltello, una pistola e un’armonica.
E un pugno che aveva centrato in pieno stomaco il tirapiedi che s’era accasciato a terra mentre il negro, non ancora pago, lo andava prendendo a calci.

Erano dovuti intervenire altri due per immobilizzarlo nella sua furia omicida.

«Figlio di puttana, ti ho avevo chiesto un bluesman non un killer!» aveva sibilato Randazzo  puntando la pistola alla testa del giornalista che con le mani congiunte lo andava implorando: no, ti prego Jack, non sparare, ho fatto quello che tu mi hai chiesto. Simon “Rice” è davvero portentoso ma ha un brutto carattere. Va trattato con rispetto. È un nero che pensa di essere un bianco.
Murphy aveva riso di quella sua battuta, ma l’altro lo aveva afferrato per il bavero della giacca e gli aveva sibilato nelle orecchie: parla con lui e avvertilo che è sotto tiro. La prima mossa falsa è morto. E anche tu.

 

Simon “Rice”, niente affatto intimorito dalla pistola premuta contro la sua schiena da uno dei tirapiedi di Randazzo, e dopo aver brevemente concordato il repertorio con i musicisti dell’orchestra, aveva ammaliato il pubblico esibendo il suo straordinario feeling  con l’armonica, supportato da una tecnica unica e sublime, nel modo in cui stringeva le mani attorno all’armonica e ricavandone un suono risonante, colorito e ricco di vibrato. L’armonica era l’estensione a quella sua voce, potente e affilata, struggente ed emozionante, il fantastico commento a ciò che aveva appena cantato.

Now, bluebird, bluebird
Please take this letter down south for me
Now, bluebird, bluebird
Please take this letter down south for me
Now, you can tell my baby I’m up here in St. Louis
Oh, but I’m just as blue as I can be

Cantava Simon “Rice” cavando note azzurre da quella sua armonica, che struggenti evocavano un sud lontano e un amore irraggiungibile.
Now bluebird, when you get to Jackson
I want you to fly down on Shannon Street
Now bluebird when you get to Jackson
I want you to fly down on Shannon Street
Well, but I don’t want you to stop flyin’
Until you find Miss Lacey Belle for me.

E in questo appassionato, intimo dialogo in puro stile blues, tra la voce di “Rice” e il vibrato, teso ed emotivo della sua armonica, s’era poi inserito, nella strofa finale, il fraseggio, discreto ed ispirato della chitarra.

 Play it for me, you know how to ask her’
‘Sing it about my baby, too’
Now bluebird, she may not be at home
But please knock on her do’
Now bluebird, she may not be at home
But please knock on her do’
Well, said she may be right across the street
Visitin’ her next door neighbor, you know.

E quando sull’ultima nota l’uccello blu, il messaggero d’amore, s’era involato verso sud, il pubblico all’unisono era scattato in piedi tributando al bluesman un lungo, irrefrenabile applauso, a cui lui aveva risposto con un assolo d’armonica, tenuta tra il labbro superiore e il naso, senza l’ausilio delle mani, letteralmente mandando in visibilio gli ascoltatori, ignari che quello fosse uno sberleffo al loro indirizzo.

«Che mi dici, Jack? Volevi il migliore  ed io te l’ho dato. Simon “Rice”Jackson, il genio dell’armonica… a proposito, non chiamarlo familiarmente “Rice”,  va su tutte le furie, ha un carattere di merda, s’incazza per un niente. Ad ogni buon conto mi devi un favore».
Il giornalista, con un sigaro in bocca e l’aria distesa, aveva così approcciato Randazzo che stava per lasciare il locale con un paio di scagnozzi al seguito.

«Ma vaffanculo, Murphy!» aveva risposto l’altro, sbrigativamente spintonandolo di lato.