La strada del ritorno pareva a Ramsat molto più lunga di quella dell’andata, forse perché non era abituato a ripercorrere i suoi passi e forse perché la presenza muta di Shamkhat gli procurava un inconfessato fastidio. Lontano sull’orizzonte le nuvole rincorrevano i colori dell’alba. Era il secondo giorno di viaggio e già la noia aveva preso il posto della curiosità per la nuova avventura. Il cavallo procedeva lentamente, muovendo un passo dopo l’altro lungo la strada appena tracciata che sembrava perdersi nel deserto di pietra. Shamkhat continuava a non proferire parola, dondolandosi al ritmo del carro e Ramsat occupava il tempo affilando la spada con una cote di maiale che portava sempre con sé. Il paesaggio immobile aveva un qualcosa di ipnotico e talvolta a Ramsat sembrava di scorgere dei movimenti in lontananza, che poi si rivelavano scherzi della sua immaginazione.

La nuvola di polvere che comparve a levante verso mezzogiorno facendosi sempre più grande e vicina, tuttavia, non sembrava un semplice miraggio. Il guerriero si alzò in piedi, facendo cenno alla sua compagna di osservare a sua volta. Shamkhat socchiuse gli occhi e scrutò a lungo l’orizzonte, poi accennò di sì. Avevano visite. Ramsat nascose le armi sotto la panca, invisibili ma a portata di mano, mentre la donna sparì rapida all’interno del carro. A quel punto non restava che aspettare.

Le distanze erano falsate dall’aria limpidissima del deserto, così le figure che venivano verso di loro non furono distinguibili per lungo tempo, confuse in una macchia indistinta che si faceva via via più grande, ma alla fine i due viaggiatori videro una decina di cavalieri che stavano procedendo per tagliare la loro strada. Il gruppo sembrava cavalcare senza fretta, sicuro di raggiungere la facile preda, che non aveva alcuna possibilità di fuggire nell’immensità della pietraia, e solo quando fu a poche centinaia di passi si aprì a ventaglio al centro della pista.

Il carro continuò ad avanzare con il medesimo passo, ma Ramsat sotto l’apparenza indolente scrutava con attenzione il drappello di predoni. Tutti portavano ampi mantelli e sciarpe che coprivano quasi completamente il volto, sicuramente per ripararli dalla polvere che loro stessi sollevavano, oltre che dal vento tagliente del deserto. Il capo sembrava essere l’uomo al centro dello schieramento, interamente vestito di nero, che brandiva una spada curva con aria minacciosa. Nessuno sembrava armato di archi.

Come fu ad una decina di passi Ramsat tirò le redini, facendo arrestare il cavallo, e si mise ad aspettare. Il capo del gruppo si fece avanti, guardingo, seguito dai suoi compagni.

«Dove stai andando?» chiese, con una nota d’insolenza nella voce.
Ramsat rispose tenendo il capo basso, senza guardare l’altro in volto.
«Sto ritornando al mio villaggio signore».
«E quale sarebbe il tuo villaggio?».
«Al-Ryat» rispose Ramsat, ricordando il nome di un villaggio che aveva incontrato durante il suo viaggio, parecchi giorni addietro.
«Ah!» approvò il capo «e cosa trasporti nel carro?».
«Solo la mia vecchia madre malata e le sue poche cose».
«Questo lo vedremo!» esclamò il brigante, e fece cenno ai suoi uomini di guardare dentro il carro.

Subito due uomini smontarono da cavallo e saltarono sul retro del carro, ma subito scesero urlando.

«Cosa succede?» urlò il capo dei predoni.
«Dentro il carro c’è una lebbrosa!».

Il capo voltò il cavallo verso Ramsat e gli sventolò la spada davanti al viso.

«Tua madre ha la lebbra? Perché non me l’hai detto?».
«La sto portando a casa a morire» rispose mesto Ramsat «te l’avevo detto».
«Non che era malata, maledizione!».

Ramsat abbassò ancora di più gli occhi.
Il comandante fece impennare il cavallo.

«Via! Andiamo via tutti prima che questi ci attacchino la lebbra!».

Come un solo uomo i predoni si lanciarono al galoppo nella stessa direzione da cui erano venuti.
Ramsat spronò il cavallo e li guardò allontanarsi. Quando non furono più che una nuvola all’orizzonte fece cenno a Shamkhat di uscire.

«Sembra che tu li abbia spaventati bene» disse ridendo.
«Chi non ha orrore della lebbra?» rispose la donna. «Quello che temevo era che incendiassero il carro e ci ammazzassero per la rabbia».
«Infierire sugli ammalati porta sfortuna, e poi quegli uomini non avevano archi: avrebbero dovuto avvicinarsi a noi per ucciderci».
Shamkhat sospirò: «Non vedo l’ora di togliermi questo trucco di dosso».

Era la prima volta che vi faceva cenno, e Ramsat rivide l’immagine della bella prostituta con cui era stato solo poco tempo prima.

«Se non facciamo altri brutti incontri domani dovremmo giungere allo stagno» disse.
«Cosa avresti fatto se quegli uomini non si fossero spaventati per il mio travestimento?».
«Li avrei uccisi».
«Tutti? Ci saresti riuscito?».
Ramsat la guardò: «Forse».

 

Il viaggio proseguì senza ulteriori problemi e alla sera del terzo giorno il carro arrivò in prossimità delle colline che nascondevano la piccola oasi che ospitava lo stagno. Da lontano si intravedevano degli alberi che svettavano sulla pianura, e uccelli che sorvolavano la zona in larghi cerchi.
Shamkhat fissava affascinata il tramonto incendiare l’orizzonte e il brulicare della vita.

«È affascinante!» esclamò «davvero un altro mondo!».
«La terra ad oriente di qui è meno assetata» spiegò Ramsat «pare che un fiume si inabissi molto più a monte e passi sotto a queste colline, così l’acqua affiora in più punti».
«Posso levarmi questa maschera?».
«Credo di sì, ma aspettiamo domani mattina per avvicinarsi allo stagno».
«Perché?».
«Il buio scenderà rapidamente, e la nostra comparsa potrebbe spaventare Enkidu».
«E noi non lo vogliamo, vero?» chiese Shamkhat, guardando Ramsat negli occhi.
«Non lo vuole il tuo re. Cosa c’è, hai paura?».

La donna si sciolse i capelli e cominciò a togliersi con cura la pellicola che le copriva il volto.

«Ti confesso di sì. Non so a cosa andrò incontro».
«Se è vero quello che c’è scritto nella pergamena che ho consegnato a Gilgamesh quella creatura è stata creata da un dio, quindi non può essere malvagia».
«Anche i leoni e i serpenti sono stati creati da dio e non sono malvagi, ma possono uccidermi lo stesso».
Ramsat non ribatté, pensieroso.
«Sarai vicino a me per difendermi?» chiese la donna.
«Certo».

Nessuno dei due ebbe il coraggio di riflettere su come Ramsat avrebbe potuto affrontare la creatura di un dio, e rimasero silenziosi a guardare il tramonto, mentre il cielo  cominciava a riempirsi dei versi degli animali notturni.

 

Durante la notte l’aria relativamente umida dell’oasi aveva lasciato un velo di umidità sopra la tenda del carro, e i due viaggiatori si stupirono facendo scorrere le dita sulla tela e ritraendole bagnate.

«Non avevi mai visto la rugiada del mattino?» chiese Ramsat.
«Non sono mai uscita Uruk» rispose la donna.
«Davvero?».
«Sì, mia madre era una prostituta come me e mi ha allevato nel palazzo dove mi hai incontrata l’altra sera. L’ho lasciato molto raramente e non ho mai oltrepassato le mura della città» aggiunse Shamkhat, vedendo lo stupore del suo compagno, «ma non devi pensare che fossi prigioniera, è la vita che facciamo noi: uccellini pregiati rinchiusi in una gabbia d’oro».
«D’oro ma pur sempre gabbia» si lasciò sfuggire Ramsat.
«Sì, ma non credere che invidi la tua vita. L’altra notte ho passato le dita sulle cicatrici che solcano il tuo corpo».
«Sono un guerriero».
«E io una prostituta».

I due tacquero, ognuno perso nei propri pensieri, mentre il sole cominciava ad affacciarsi a Oriente.

 

Ramsat scosse Shamkhat dalle sue riflessioni.

«Andiamo, è ora».

Senza parlare si misero in cammino e fecero un largo giro per avvicinarsi allo stagno da sottovento. Come furono giunti sulla sommità di un collinetta che sovrastava lo specchio d’acqua Ramsat fece cenno alla donna di fermarsi e tutti e due si distesero sulla sabbia ancora fresca dalla notte ad ammirare lo spettacolo.

Sotto di loro gli animali si abbeveravano allo stagno ancora in ombra, le gazzelle vicino agli animali feroci, e nessuno aveva timore dell’altro. Vicini a loro uno strano uomo beveva con le mani e si nutriva di erba, e tutto era in pace.

«Vai!» sussurrò Ramsat, e Shamkhat si alzò e scese lungo la collina.

«È lui, o Shamkhat; denuda il tuo seno,
apri la tua vulva, così che egli possa prendere le tue grazie!
Non aver paura; prendi la sua virilità!
Egli ti vedrà e si avvicinerà a te;
apri le tue vesti, così che egli possa giacere su di te!
Dona a lui, l’uomo primordiale, l’arte della donna!
Il suo bestiame, cresciuto con lui nella steppa, gli diventerà ostile,
mentre il suo desiderio  si placherà su di te».

 E Shamkhat sciolse la sua biancheria intima,
aprì la sua vulva ed egli prese le sue grazie.
Lei non ebbe paura e prese la sua virilità;
 aprì le sue vesti ed egli giacque su di lei.
Ella donò a lui, l’uomo primordiale, l’arte della donna
mentre il suo desiderio  si placò su di lei.
Sei giorni e sette notti Enkidu fu eccitato ed ebbe rapporti con Shamkhat.

 Dopo che fu soddisfatto del suo fascino,
volse il viso al suo bestiame:
ma quando videro lui, Enkidu, le gazzelle fuggirono,
gli animali selvaggi della steppa si tennnero lontani da lui.
Ora che il suo corpo era stato purificato
Enkidu era diventato debole, la sua corsa non era più come prima;
ma egli era cresciuto, era diventato molto saggio.

 

Shamkhat si avvide dello smarrimento del giovane e lo guardò attentamente in volto:

«Sei bellissimo, o Enkidu; sei simile a un dio, perché con le bestie selvagge scorrazzi ancora nella steppa? Vieni, che ti possa condurre a Uruk, l’ovile, alla pura casa, l’abitazione di Anu e di Ishtar, il luogo di Gilgamesh, dalla forza perfetta  e dove, come un toro selvaggio, si mostra superiore tra il popolo!»

E Ramsat vide Enkidu alzarsi fieramente in piedi:

«Sì, Shakthar, conducimi alla casa pura e santa, l’abitazione di Anu e Ishtar, il luogo di Gilgamesh, dalla forza perfetta. Voglio essergli ostile, lo voglio provocare! Voglio gridare in Uruk che sono il più forte, perché colui che è stato creato nella steppa ha vera potenza!».

«Andiamo!» esclamò la prostituta, alzandosi a sua volta e allacciandosi le vesti, «andiamo ad Uruk, dove i giovani vestono cinture e ogni giorno vi è festa, dove le prostitute hanno forme meravigliose. Là ti mostrerò Gilgamesh, uomo dal carattere volubile. Ma, Endiku, cambia il tuo rozzo comportamento: egli è uomo che ha dignità, non dorme mai, di giorno e di notte, la sua forza è più della tua, Shamas lo ama e An, Enlil ed Ea lo hanno reso più saggio. Prima che tu sia sceso dai monti Gilgamesh in Uruk ti avrà già visto nei sogni!».

 

Ramsat aveva osservato tutta la scena dalla sua posizione con crescente stupore. Quando vide i due risalire la collina e dirigersi verso il carro per fare ritorno alla città prese la bisaccia che racchiudeva tutti i suoi averi e la borsa d’oro ricevuta dal Grande Re e se la gettò sulle spalle.

Mi piacerebbe vedere come te la caverai con questo giovane toro, Gilgamesh, pensò tra sé, e qualcosa mi dice che la tua epopea si ancora tutta da scrivere, mio irruento amico!

 Il guerriero superò il crinale della collina, scese allo stagno tra il rapido fuggire degli animali, riempì due borracce e ritornò sui suoi passi. Si guardò ancora una volta intorno, a levante la steppa infinita, a ponente il brullo deserto che portava ad Uruk, e per un attimo fu indeciso se volgere il suo cammino verso sud, dove si diceva che esistesse un lago di acqua salata vasto come il mondo. Perché questo era Ramsat, in verità: un guerriero, ma soprattutto un uomo dalla insaziabile curiosità. Si disse infine che il vasto lago poteva anche aspettare: era ad Uruk che si sarebbe scritta la storia!

Così lentamente si accinse a seguire Shamkhat ed Enkidu, tenendosi ad una distanza sufficiente a non essere visto, e rifece ancora  il cammino che già due volte aveva percorso.