Il tramonto visto dalle mura di Uruk era uno spettacolo impressionante: il sole scompariva dietro le dune del deserto come una palla di fuoco che scendesse ad incendiare la terra, e le nuvole rade all’orizzonte parevano fumo che si sollevasse dalla sabbia rovente. Più sulla destra, dove la strada si perdeva verso oriente, radi palmeti sembravano lottare contro la siccità, ergendosi a sfidare il cielo con le loro larghe foglie sottili.
«Un bello spettacolo, vero?».
Ramsat si voltò verso il re, che era sopraggiunto alle sue spalle.
«Devo ammettere che è proprio così».
«Sembra difficile credere che là fuori possa sopravvivere qualcosa».
«Eppure…».
«Lo so, la vita è più forte delle apparenze e si aggrappa con unghie ed artigli pur di sfuggire alla morte».
Ramsat soffiò sui petali che aveva raccolto da un fiore nel giardino del re.
«Ma alla fine la morte vince sempre» disse, pensieroso.
«Sei pessimista. Non è da te».
«Non lo sono, Gilgamesh, ma non posso evitare di pensare che la morte esige sempre il suo prezzo, e noi lottiamo e lottiamo, ma qualcuno ogni volta cade».
«È la legge della vita» osservò il re «nessuno vive in eterno».
«Neppure tu?».
Gilgamesh scrutò in volto l’amico.
«Sei anche sarcastico, oggi».
«Sarcastico e pessimista, non potrei essere peggiore compagno» rise Ramsat.
«Raccontami di quell’Endiku» chiese il re.
«Vuoi cambiare argomento?».
«Potrebbe essere un buon motivo. Ma mi interessa davvero».
«Non dirmi che sei diventato superstizioso!».
«Solo perché il mio migliore e unico amico è tornato con una oscura pergamena che racconta di un complotto degli dei ai miei danni e mi dice di aver visto colui che dovrà combattermi? Tu che ne dici?».
«Che forse non hai tutti i torti».
«E dunque…».

Ramsat guardò ancora alcuni istanti verso l’orizzonte, poi si volse, si sedette sul bordo di uno dei camminamenti in pietra e scosse alcune pietre dai suoi sandali.
«Ho visto quell’uomo all’abbeverata. Ero sceso per rinfrescarmi e riempirmi le fiasche d’acqua quando ho notato qualcosa di strano».
«Che cosa?».
«Eravamo ancora lontani dalla città, a sei giorni di cammino, e quella era una delle poche abbeverate di quella zona, quindi era normale che fosse frequentata da parecchi animali, anche feroci, infatti mi ci ero avvicinato con attenzione…».
«Vai avanti, non tenermi sulle spine».
«Ecco, in effetti dove ero io gli animali erano fuggiti, ma dall’altra parte della pozza potevo vederli che bevevano tranquillamente, e già questo era inusuale, ma la cosa più strana era che i leoni stavano insieme alle gazzelle, e queste non mostravano la minima paura».
«Anche lui era lì?».
«Sì. Subito non l’ho notato, ma poi ho visto quest’uomo dall’aspetto di animale, ma pieno di dignità, che si abbeverava come gli altri e sembrava mangiare l’erba insieme alle gazzelle».
«Ne fai un quadro che pare quello del mitico Paradiso perduto» disse il re
«E davvero lo sembrava! Ma non solo: ho visto con i miei occhi quell’uomo strappare le trappole che i cacciatori avevano posto intorno alla sorgente e potrei giurare che mi osservava per vedere se non arrecassi minacce alle bestie».
«E tu cosa hai fatto?».
«Me ne sono andato, facendo finta di niente, ma i giorni successivi sono ritornato senza farmi vedere, ed ho visto la stessa scena».
Gilgamesh si prese tra le mani la stretta barba che gli scendeva dal mento.
«Cosa intendi fare?» gli chiese Ramsat, che ben conosceva quell’atteggiamento.
«Ci devo pensare» rispose il re «avrò bisogno che tu ritorni là».
«Allora puoi anche farne a meno: non ho nessuna intenzione di mischiarmi in una bega tra gli dei».
«Dici sul serio?» esclamò Gilgamesh, stupito.
«Sì, sono successe molte cose da quando ci siamo lasciati, Gilgamesh, e ho imparato a rispettare quello che non conosco».
«Adesso sei tu ad essere superstizioso!».
«Chiamami come vuoi» disse Ramsat, rialzandosi in piedi «so benissimo che non passeranno molte lune che saremo tutti polvere nel vento…».
«E allora?» lo interruppe Gilgamesh.
«Allora preferisco che sia domani e non oggi, e vedere ancora nuove cose. La mia strada mi porta ad occidente».
«Cosa credi di trovare ad occidente’».
«Chi lo sa? C’è gente che favoleggia di una grande distesa di acqua salata vasta mille shar e forse di più. Ecco, vorrei vederla prima di morire».
«Acqua salata? Come una pozza avvelenata? Che schifo!».
Adesso fu la volta di Ramsat di mettersi a ridere.
«Non mi convincerai, Grande Re».
«Potrei costringerti».
«Sì, e potresti farmi uccidere, ma non avresto lo stesso il mio aiuto» disse il guerriero facendo il gesto di dirigersi verso la scala che portava al terreno.
«Dove vai?».
«In città a cercare un amico che ho perso per colpa delle tue guardie!».
Glgamesh si fece da parte: «Un amico? Allora sei riuscito in una giornata in quello che a me non è riuscito negli anni».
«Be’, considerato che è sparito non appena sono giunte le guardie non posso dire che avesse il cuore di un leone, ma era simpatico».
«E cosa farai quando l’avrai trovato?».
«Mi farò indicare la migliore prostituta della città. Che non è detto sia la più bella» rispose Ramsat avviandosi.
Ma già il re non lo stava più a sentire: si lisciava la barba con le dita, immerso nei suoi pensieri.

Come ebbe varcato il portone di pietra all’ingresso della cittadella reale Ramsas si guardò intorno. Aveva davanti a sé una ampia piazza quadrangolare, occupata da un lato dalle mura del palazzo e dagli altri tre da case a più piani che si affacciavano sullo spazio aperto. Abitazioni eleganti, signorili, ed indubbiamente lì dovevano alloggiare le persone più ricche, nobili o mercanti, perché non aveva scorto ville o tenute mentre si avvicinava ad Uruk. Questo significava due cose: che vivere all’esterno delle possenti mura della città fortificata poteva essere molto pericoloso e che non esisteva un controllo effettivo sul territorio circostante. Anzi, tre: che Gilgamesh teneva in pugno tutti i notabili del regno, giacché era il garante della loro sicurezza nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di mettersi contro di lui. Nessuno tranne gli dei.
Il sole era calato rapidamente sopra la linea ondulata delle colline di pietre che delimitavano l’orizzonte e adesso una luminosità brillante sembrava voler incendiare il cielo. Uruk era grande, immensa rispetto alle altre città: come poteva trovare Niso? Ramsas rifletté che il suo poco affidabile amico era un cantore, o perlomeno, così affermava di essere, per cui era probabile che fosse in qualche locale a cercare di mettere insieme i soldi per la cena, e di solito quel genere di bettole si trovava intorno alla zona centrale delle città, non tanto vicino ai ricchi da dare fastidio ma neanche tanto lontano da scoraggiare le loro uscite.
Al quarto tentativo Ramsas sentì uscire da una porta semiaperta la voce inconfondibile di Niso. Non stava cantando, ma sembrava stesse litigando con qualcuno. Incuriosito, Ramsas scostò maggiormente l’uscio e scivolò all’interno senza farsi vedere.
Come sempre dentro il locale l’illuminazione era fioca, fornita da una lampada ad olio che bruciava al centro dello stanzone e dai riflessi del grande camino, ma tra il fumo dell’olio di cattiva qualità e quello del cinghiale che stava arrostendo l’atmosfera era gravida di nebbia e di odori pesanti. L’attenzione degli avventori era concentrata su alcune persone che stavano parlando ad alta voce nei pressi di un pesante tavolo dietro a cui l’oste mesceva la birra spillandola da una grossa botte. A fianco Niso stava discutendo con un corpulento mercante alto due spanne più di lui, visibilmente ubriaco. Il piccolo cantore sembrava molto agitato e saltellava da una parte all’altra, mentre il suo avversario cercava di colpirlo con un boccale pericolosamente pieno, inondando di birra tutti i presenti, che sghignazzavano divertiti.

Non volendo fare la stessa fine, Ramsas si tenne in disparte fino a quando uno non pensò bene di intervenire, bloccando Niso per le spalle. Impossibilitato a fuggire, questi guardava con terrore l’omone farsi sempre più vicino e sollevare sopra la sua testa il pesante boccale di metallo con l’intenzione di spiaccicarla come una nove.
«Adesso basta» intervenne Ramsas, fermando la mano dell’uomo «ora vi siete divertiti abbastanza!».
Il mercante lo fissò, inebetito, senza riuscire a capire, il polso bloccato dalla stretta ferrea di Ramsas. Gli altri uomini avevano reagito con disappunto all’intervento, ma quando la figura di Ramsas era emersa dall’ombra furono veloci a tirarsi indietro: nessuno voleva avere a che fare con quello che in tutta evidenza sembrava un guerriero.
Solo il mercante era troppo ubriaco per rendersi conto della situazione, ma Ramsas fu svelto a prendere per un braccio il suo amico e a trascinarlo all’esterno della locanda.
Come furono nella strada Niso si liberò dalla stretta e cercò di rassettarsi l’abito.
Ramsas osservò scettico i suoi tentativi di riacquistare un minimo di dignità, infine, quando il cantore sembrò essersi calmato lo prese per i baveri del giubbotto, sollevandolo di peso.
«Quante volte devo venire salvarti? Dimmelo!».
Niso tossicchiò, mezzo strozzato: «Io non ti ho chiesto niente».
«Preferivi che ti lasciassi rompere la testa da quell’ubriaco?» disse Ramsas, facendolo scendere a terra.
«No, questo no, anzi, grazie. Solo che sarei riuscito a cavarmela anche da solo».
«Non ne dubito, e stai sicuro che la prossima volta non mi sognerò di intervenire!».
«E perché questa volta l’hai fatto?».
Ramsas sorrise: il piccolo uomo era abbastanza arguto da aver colto nel segno e adesso aveva segnato un punto a suo favore.
«Bene, quando è così sarò chiaro: voglio che mi guidi al miglior lupanare di Uruk».
«Lupanare?».
«Bordello, chiamalo come vuoi».
Niso si inchinò: «Se è tutto quello che desideri non c’è problema. Anzi, un piccolo problema ci sarebbe…».
«Quale?».
«Io ti posso accompagnare dove dici, ma per guidarti come si conviene e non lasciare che ti truffino dovrei entrare anche io, e…».
«Non ti preoccupare, pagherò anche per te».
«Quand’è così… Ma non preferiresti prima mangiare qualcosa?».
«No, ho già mangiato».
«Beato te».
Ramsas guardò Niso dall’alto in basso, finché questi non rinunciò.
«Va bene, va bene, lo dicevo solo nel tuo interesse, a pancia piena ti avrei guidato meglio. Seguimi». E fece per incamminarsi.
«A proposito, qual’era il problema con quel mercante?».
Niso alzò le spalle: «Niente di importante2.
«Tu dimmelo lo stesso».
«E va bene! Giocavamo a dadi e lui sosteneva che lo stessi imbrogliando, tutto qui».
«E non era vero?».
«Be’…».

Il percorso per raggiungere il luogo dove lo stava conducendo Niso si rivelò molto più complicato di quanto Ramsas avesse immaginato, e durante la strada il cantore gli spiegò come ad Uruk le prostitute – perlomeno quelle più ricercate – godessero di una elevata considerazione, tanto che operavano in case di loro proprietà e quelle più famose prendevano sotto la loro ala protettrice le più giovani, bisognose di fare esperienza e imparare i trucchi del mestiere. E lui la stava portando dalla migliore, ovviamente.
Abbandonate le vie principali, Niso si infilò in strette scorciatoie che rapidamente fecero perdere a Ramsas il senso dell’orientamento, finché non giunsero ad una piazzetta su cui si affacciava l’ingresso di un unico palazzo. La porta, tinta di verde, sembrava robusta e rinforzata da sbarre metalliche, e pareva chiusa da sempre.
«È questo il posto?» chiese Ramsas, perplesso.
«Questa è la dimora di Shamkhat. Nessuna è come lei».
«E come possiamo farci aprire la porta?».
Niso si fece avanti.
«Niente di più facile, basta bussare» e sollevato un battente che spuntava da una maschera infissa sul portone lo lasciò ricadere pesantemente.
«Non succede nulla» disse Ramsas.
«Aspetta qualche momento».

Un rumore di passi si udì dall’interno e nel portone si spalancò uno spioncino fino a poco prima invisibile.
Due occhi scuri guizzarono nella feritoia, e subito dopo la porta si aprì lentamente.
Niso fece un passo avanti, seguito dal suo compagno. L’atrio del palazzo si apriva su una lunga rampa di scale che saliva al piano superiore, illuminata da alcune torce che bruciavano senza fumo.
Il servitore che aveva aperto, seppure non armato, aveva un’aria temibile: un negro di media età sensibilmente più alto del normale, vestito con una lunga tunica bianca sotto la quale avrebbe potuto nascondere qualsiasi cosa.
«La signora vi aspetta» disse.
Ramsas si rivolse a Niso: «Come fa a sapere che saremmo venuti?» chiese.
«Non lo sapeva» rispose questi, «è la formula con cui Shamkhat accoglie i visitatori».
«Mi sembra che la conosci bene» osservò il guerriero.
«Meno di quanto credi, mi è capitato raramente di essere abbastanza ricco da superare quella soglia».
«Mi stupisce che tu non abbia usato uno dei ntuoi trucchi».
Niso gli lanciò uno sguardo obliquo: «Non sono così pazzo» disse.
Ramsas sollevò le sopracciglia in segno di stupore e seguì lui e il servitore su per le scale. Come furono arrivati su un ampio pianerottolo il servitore si fece da parte e i due entrarono in una vasta sala dove alcune donne stavano conversando sedute su dei morbidi cuscini.
Nessuna di loro aveva l’aspetto volgare di una prostituta, ma sembravano tutte donne perbene, seppure alcune fossero molto giovani.
Ramsas si guardò intorno, ma Niso lo prese per la mano.
«Ecco» disse, portandolo davanti ad una donna sulla trentina dal portamento altero «questa è Shamkhat».
Ramsas accennò un inchino.ù
«Mi hanno parlato molte bene di te» disse, guardandola bene negli occhi.
La donna non battè ciglio, limitandosi a squadrarlo con attenzione.
«Sei sicuro di poterti permettere i miei servizi?».
Per tutta risposta Ramsat infilò la mano nella borsa e ne estrasse alcune monete d’oro.
«Quando è così seguimi» disse Shamkhat, alzandosi e porgendogli la mano.

Era passato parecchio tempo da che Niso aveva fatto ritorno nella sala con la ragazza che aveva scelto, quando Ramsas ricomparve. Il cantore cercò di intravedere sul volto del compagno le tracce della sua esperienza, ma il volto del guerriero sembrava una maschera di granito. Shamkhat lo seguiva dopo alcuni passi, altrettanto composta. Come la donna si fu seduta nuovamente al suo posto Ramsasn fece per darle le monete d’oro che le aveva promesso, ma questa scosse la testa.
«Non mi devi niente» disse «il prezzo è stato pagato».
«E da chi?» chiese Ramsas, sbalordito.
«Dal Grande Re».
«Gilgamesh? Maledetto lui! E perché lo avrebbe fatto?».
«Il perché non lo so, ma mi ha dato un ordine per te».
«Un ordine? E quale sarebbe?».
«Domani mattina dovrai partire per il luogo dove hai incontrato l’uomo che sai…».
«Domani mattina? Ma lui è pazzo!»
«…E io verrò con te» concluse la donna.
Ramsas si voltò verso il suo compagno: «Niso, maledetto bastardo! Sapevi tutto fin dall’inizio!».
Il piccolo cantore strinse le spalle: «Sono un servo del Grande Re, come tutti» rispose.
Il guerriero fulminò per un istante Niso e Shamkhat, poi si voltò e scese rapidamente le scale. Giunto in fondo scostò bruscamente il servitore che gli si era fatto incontro e uscì nella notte. Furioso, percorse a grandi tratti la stradina che l’aveva portato lì e alla fine svoltò dalla parte opposta e si ritrovò nella grande piazza su cui dava il palazzo del Re. Dunque Niso l’aveva ingannato anche su quello: gli aveva fatto fare il giro di mezza città per riportarlo al punto da cui era partito. Ma Gilgamesh l’avrebbe sentito, oh se l’avrebbe sentito!

Arrivato come una furia al varco che costituiva l’ingresso del palazzo reale, Ramsat superò le due guardie senza neanche lasciargli il tempo di intervenire, ma quando si trovò di fronte alla porta che conduceva agli appartamenti di Gilgamesh si trovò la strada sbarrata da un drappello della guardia personale del re.
«Dove stai andando?» chiese il comandante, un uomo giovane, vestito con una elegante corta tunica bianca ricoperta da una cotta di maglia.
«Devo vedere immediatamente Gilgamesh!» esclamò Ramsat, accennando a scostarlo per passare oltre.
Immediatamente le guardie si disposero tra lui e la porta.
«Mi dispiace» replicò il comandante, ma il Grande Re si è ritirato nei suoi appartamenti e nessuno può passare».
Ramsat valutò la consistenza della scorta e per un attimo fu tentato di usare la forza per passare.
L’altro dovette percepire la sue esitazione, così si affrettò a continuare: «Ma il Grande re si è degnato di lasciare un messaggio per te».
«Dimmi».
«Domani mattina, al sorgere del sole, fatti trovare qui: il Grande Re ti incontrerà e ti spiegherà cosa vuole da te. Nel frattempo ha disposto che ti sia preparato un appartamento in cui puoi riposare per la notte» continuò, indicando una piccola dipendenza a lato dell’ingresso.
Era chiaramente tutto quello che il giovane comandante era disposto a dirgli, e Ramsat decise di accettare l’offerta: poche ore non avrebbero fatto differenza e ormai aveva l’impressione che il suo vecchio compagno d’armi avesse calcolato ogni cosa.

La luce che entrava dalla finestra rivolta ad oriente risvegliò Ramsat ben prima dell’alba.
Ancora assonnato, il guerriero si alzò dal letto, si rinfrescò rapidamente in una bacinella d’acqua e aprì la porta della stanza. Nell’anticamera qualcuno aveva disposto sul tavolo una robusta colazione e su una sedia dei vestiti di pelle. Ramsat li esaminò e vide che erano della sua misura, ma non ebbe tempo di fare altro che Gilgamesh in persona entrò dalla porta d’ingresso.
«Buongiorno Ramsat» esordì il Grande Re, gioviale «la colazione è di tuo gradimento?».
Ramsat dette una veloce occhiata al cibo sul tavolo.
«La colazione lo è certamente, ma il tiro che mi hai giocato mi ha divertito molto meno!» disse.
«Suvvia! Non mi dirai che la nostra Shamkhat non è stata all’altezza delle tue aspettative!».
«Shamkhat è una eccellente prostituta» concesse Ramsat «e tu sei un perfetto lenone».
Gilgamesh rise alla battuta: «Vedo che il solo pensiero ti ha fatto tornare il buonumore» disse, battendogli una mano sulla spalla «non vuoi dividere la colazione con me?».
«Credevo che l’avessi fatta preparare per me soltanto».
Il re indicò il tavolo pieno di cibo.
«Non mi dirai che sei in grado di mangiare tutto questo da solo!».
«Mhm, no, questo no» disse Ramsat sedendosi.
Gilgamesh lo imitò, prese un pane scuro e croccante, lo spezzò in due e lo riempì con un denso liquido biondo.
«Di cosa si tratta?» chiese Ramsat, incuriosito.
«Lo chiamano miele» rispose il re «assaggialo, e dolcissimo».
Il guerriero intinse la punta del suo coltello e spalmò il liquido su una fetta di pane.
«Buono vero?».
«Veramente» ammise Ramsat, «da quale pianta lo ricavi?».
«Non da una pianta, da degli animali. Hai presente quelle piccole bestie gialle che volano sui fiori?».
«Quelli? E come è possibile?».
«È una lunga storia. Pare che in oriente siano riusciti ad addomesticarli e a fargli produrre questo liquido che chiamano miele in grande quantità».
«Ma quelle bestie pungono!».
Gilgamesh rise e allargò le braccia.
«Non so come facciano, ma è una abilità che si tramandano da padre in figlio. Io mi accontento di consumarlo».
Ramsat continuò a spalmare il liquido sul pane, poi bevve il vino speziato e mangiò alcuni dei frutti che erano in un grosso cestino al centro della tavola.
«Dunque» disse infine «cosa vuoi da me?».
«Non vuoi finire di mangiare prima di parlare di affari?».
«Affari? E quando mai un re fa affari con un suo suddito?».
«Tu non sei un mio suddito, sei un mio amico» protestò Gilgamesh.
«Piantala di prendermi in giro e dimmi cosa vuoi».
Gilgamesh sospirò e posò il boccale di vino.
«L’idea me l’hai data tu stesso quando mi hai portato quella pergamena, l’altro giorno…» esordì.
«Allora hai deciso di prestargli fede?».
«A te presto fede, e tu mi hai detto di aver visto quell’uomo, quell’Enkidu».
«È così».
«Allora mi sono detto: se questo è vero, non potrebbe essere vero anche il resto del canto?».
«L’hai letto tutto?» chiese Ramsat stupito.
«Fare il re comporta degli obblighi. Tu non l’hai letto?».
«Solo in parte» ammise Ramsat.
«Meglio così: ti racconterò io cosa succede poi».
«Forse preferisco non saperlo».
«Non ci credo: quando mai hai rifiutato l’avventura?».
«Da quando sono diventato vecchio».
«Piantala! Qui fuori c’è Shamkhat che ti aspetta. Il tuo compito è di condurla fin o allo stagno dove hai incontrato Enkidu».
«E poi?».
Gilgamesh lo fissò.
«Shamkhat sa cosa fare. Tu devi solo essere il cacciatore che la condurrà là».
«Adesso capisco quei vestiti!» esclamò Ramsat « e perché devo farlo proprio io?».
«Per due buoni motivi: il primo è che solo tu sai dove diavolo sia quello stagno…».
«E il secondo?».
Il re sospirò.
«Il secondo è che fuori da Uruk imperversano bande di predoni che è impossibile controllare, e io ho bisogno che Shamkhat arrivi sana e salva fino a destinazione».
«Mhm… se si sparge la voce che la tua prostituta preferita sta viaggiando senza scorta i predoni accorreranno come mosche».
«A questo ho già pensato» disse Gilgamesh, alzandosi e andando alla porta «vieni a vedere la tua compagna».
Ramsat si alzò a sua volta e seguì il re all’aperto, ma non vide tracce della donna. In tutto il piazzale l’unica presenza era costituita da un vecchio carro trainato da un solo cavallo, alla cui posta sedeva una donna anziana, con il volto deformato da una vasto eczema.
«Cosa ci fa qui una lebbrosa?» esclamò il guerriero, inorridito.
«Come non riconosci la tua amante di ieri sera?» rise Gilgamesh.
Ramsat si avvicinò alla donna e la squadrò con attenzione.
«Non solo sembra una lebbrosa, ma puzza anche come un intero porcile!».
«Non pretenderai che una lebbrosa si lavi».
«Incredibile!».
Un sorriso solcò il volto della donna per un fugace istante.
«Tu sarai un cacciatore che riporta la sua vecchia madre malata a casa per morire in pace» spiegò il re «nessuno immaginerà che sotto queste spoglie si nasconda la bella Shamkhat».
«Questo proprio no. Spero solo che non mi muoia tra le mani durante il viaggio!».
«Non ti preoccupare, la nostra Shamkhat ha risorse insospettate».
«Di questo me ne sono accorto!».
«L’unica cosa che mi dispiace è che non credo che in questi giorni che passerete insieme tu avrai gran voglia di approfittare di lei» disse il re con malizia, schiacciando l’occhio.
«Direi proprio di no» rispose Ramsat, saltando sul carro.
«Ramsat, i vestiti!» lo richiamò Gilgamesh..
Il guerriero prese al volo l’indumento che il sovrano gli aveva lanciato e cominciò a spogliarsi, mentre la donna con un leggero movimento delle redini aveva già spronato il cavallo.