EGISTO CARFUSI.
Si dice che il primo guardiano non si scorda mai e ciò è un po’ vero anche per me al riguardo di Egisto. E questa è la sua storia che mi è rimasta particolarmente impressa e viva nella memoria per il suo vivere appassionatamente ogni cosa, senza mezze misure e compromessi come fanno in genere gli spiriti giovani e puri, scevri da ogni compromesso.
Arrivò qui una settimana prima dell’inaugurazione e si fece carico che tutto fosse perfettamente in ordine e funzionante per quel giorno.
Era un giovane bruno, dalla pelle abbronzata con piccole rughe attorno agli occhi formatesi non tanto per l’età quanto per il continuo dover concentrare lo sguardo lontano, oltre la caligine ed il riverbero luminoso del mare o guardare attraverso il binocolo.
Era un sottufficiale della Marina borbonica che, perse due dita della mano destra per un incidente in servizio, era stato destinato a terra.
Già prima di quello brutto evento aveva una fidanzata a Catania di nome Adelina Caposso, una gran bella ragazza figlia di un commerciante di stoffe molto noto in città.
La amava profondamente ed il suo ritratto fu la prima cosa che appoggiò sopra al mobiletto della cucina il giorno che arrivò qui, al suo alloggio.
Lo vedevo ogni tanto si soffermarsi a guardare la foto, accarezzarla ed a volte la baciarla cedendo ad atteggiamenti affettuosi che in pubblico certamente evitava.
E poi, qualche volta le parlava a voce alta quasi che lei fosse lì.
Pensavo:Strani effetti provoca la solitudine !
Si sentiva solo eppure io ero lì, avrei voluto che sentisse la mia presenza amica, che si sentisse protetto dai capricci del mare e del cielo.
E lo ascoltavo esternare le speranze per le quali tanto si impegnava nel preparare gli ambienti in cui l’avrebbe accolta:
« Lo vedi, Adelina, come è bello adesso il mare incendiato dal sole che tramonta? Sento una luce immensa dentro, ancor più intensa quando penso a te, a quando finalmente sarai qui»…
« Ho piantato i gerani davanti all’ ingresso e messo in ordine il sentiero perché so che ami le cose belle ».
«Guardo il mare e mi pare di vederti passeggiare sulla riva, giocare con la spuma delle onde. E sei bellissima col sole ed il vento che giocano con i tuoi capelli mentre saluti me che da quassù ti sto a guardare».
Altre volte la nostalgia per alcuni momenti vissuti prendevano il sopravvento.
«Ricordi quella sera quando tua madre si dovette allontanare e restammo finalmente soli per un po’? Mi avvicinai a te fino quasi a sentire l’odore dei tuoi capelli. Mi guardavi sorridente , con gli occhi che brillavano pieni di promesse mentre io sentivo la voglia di te bruciarmi dentro. Come avrei voluto passare le mie dita tra quei bei riccioli che ti sfioravano il viso!».
Poi, nelle notti solitarie passate nel silenzio ritmato dallo sciabordio del mare , le scriveva spesso delle lunghe lettere.
Alla luce incerta della lampada ad olio, lo vedevo vergare quei fogli con il volto che traspariva una grande emozione, poi ogni tanto si fermava a rileggere e talvolta lo udivo pronunciare frasi del tipo: «… ti sogno finalmente tra le mie braccia …» e, se il tono gli appariva troppo appassionato, si fermava, appallottolava il foglio e lo gettava. Poi riprendeva a scrivere cercando le parole più adatte ad esprimere i suoi sentimenti in modo che lei li capisse pur senza averli esplicitamente espressi.
Il tono di quelle lettere, a furia di limare e moderare, risultava alla fine formale e contenuto. Erano altri tempi, quelli, ed il controllo dei famigliari era pressante e rigoroso anche sulla corrispondenza. Le scriveva vergando poche parole alla volta, poi soffiava sul foglio per asciugare l’inchiostro quindi si metteva a pensare, con lo sguardo sognante che vagava dietro a chissà quale ricordo:
«Adorata Adelina, con sempre immutato sentimento, il mio pensiero corre a lei rinnovandole la promessa che le ho fatta dacché con grazia sublime accettò di concedermi la sua mano. La casa che mi è stata assegnata è pronta, semplice e un po’ piccolina ma corredata di tutto il necessario. Manca solo che stabilisca la data del matrimonio e potremo finalmente coronare il nostro sogno».
Lo vedevo aspettare ansiosamente il postino per inviare e ricevere risposta ma la data da fissare veniva ogni volta rinviata e sempre più in là nel tempo.
Una volta era occorso un incidente all’amato padre che era rovinosamente caduto e quindi era tutta presa dalle sue cure. Un’altra volta era morta la prozia Addolorata e il lutto per quell’anima santa andava rispettato . C’era poi stato l’arrivo dei garibaldini e con loro un periodo di transizione e di grande confusione…
Gli giunse una lettera:
« Caro Egisto, sono tempi di grande paura ed incertezza qui a Catania, come forse saprai. Un generale nemico, un certo Garibaldi, è sbarcato sulla nostra isola con al seguito un pugno di avventurieri nell’intenzione di conquistare nuovi territori per il Regno di Sardegna. Nell’attesa che quelle truppe nemiche giungano qua, alcuni facinorosi, intellettuali, briganti e male intenzionati si sono organizzati in bande armate ed hanno assediato la città in cui si sono asserragliati duemila soldati delle truppe regie. Questi ultimi hanno requisito alloggi a privati , chiese e conventi Ci sono stati scontri sanguinosi e danni alle proprietà. I duemila soldati regi hanno subito gravi perdite e hanno iniziato a fare rappresaglie , fucilazioni ed atti ignobili indistintamente verso la popolazione accusata di collaborazionismo. Noi siamo riusciti a scappare in fretta e furia da Catania prima che la situazione precipitasse definitivamente. Ci siamo rifugiati in campagna, a casa di zia Addolorata, Dio l’abbia in pace. Qui, gente proveniente dalla città ci ha raccontato che la nostra casa è fortunatamente indenne ma il negozio di stoffe è stato saccheggiato ed incendiato. Ora comprenderai che la situazione economica e generale che si è venuta a creare mi costringe a rimandare di molto, certamente di mesi se non addirittura di più il nostro matrimonio. Non so quando potrò scriverti ancora, il destino sembra congiurare contro di noi ed io non so per quanto ancora potrò lottare contro di esso… ».
Quelle parole lo gettarono in uno stato di profondo sconforto a cui in nessun modo riusciva a porre rimedio, né poteva lasciare di punto in bianco il suo punto di guardia per raggiungerla. C’era anche molto caos ai vertici dell’Armata del Mare che si era in gran parte ribellata a Francesco II e non avrebbe saputo neppure a chi chiedere il permesso per essere sostituito.
Era prigioniero qui, obbligato dal suo senso del dovere di vigilare sui pescatori che contavano sulla mia luce, senza nessuno con cui urlare la propria rabbiosa impotenza.
Quella lettera fu l’ultima da parte di Adelina mentre invece lui continuava a scriverle senza mai ottenere risposta.
Dapprima giustificò quel silenzio ipotizzando impedimenti causati dal momento storico.
Lo sentivo chiedere al ritratto della sua amata: «Cosa ti sta succedendo? Chissà quanti pericoli stai correndo. Ti prego, scrivimi, questo tuo silenzio mi fa molto soffrire».
Mi rattristava sentirlo parlare, così, da solo e lo seguivo con apprensione prevedendo che fossero in arrivo per lui delle grosse delusioni ma non potevo farci niente se non essere testimone di quella sua angoscia. Certo, potevo proteggerlo da violenti temporali e tempeste marine ma non sarei riuscito a togliergli neanche una briciola di dolore dal cuore.
Passarono lentissimi diversi giorni, Garibaldi ed i suoi avevano attraversato l’isola a settentrione ed ormai il governo sabaudo s’era insediato nell’isola. Egisto era stato confermato nel suo incarico in qualità di civile, dopo aver giurato fedeltà al nuovo re.
Non si sentiva però di essere un traditore o un voltagabbana in quanto in tutta onestà riteneva di aver dato al Regno delle due Sicilie già abbastanza: due dita e la sua vita relegata qua, da solo, a raccontare ai gabbiani di un amore che stava languendo sempre più.
Nonostante tutto seguitava a svolgere il suo lavoro con grande precisione e quando saliva la lunga scala a chiocciola per arrivare in cima al terrazzino, vi sostava a lungo ad osservare il mare ed il sentiero che si snoda sulla costa. Sembrava aspettare che qualcuno arrivasse, inutilmente.
Pensava: Ormai le acque si dovrebbero essere calmate, perché non mi dà notizie?
E i suoi consueti soliloqui guardando il ritratto si trasformarono piano, piano in sospiri ed infine in pesanti silenzi che percepivo gonfi di dolore.
La verità si stava svelando crudele e spietata come una lama nel cuore ma ostinatamente la negava a sé stesso, aggrappandosi a questo o a quel frammento di un discorso, al ricordo del suo sorriso quella volta in cui disse…
Un giorno di ottobre del 1860 ricevette una lettera inattesa. Era del tenente di vascello Alfio Richera, suo amico fraterno, imbarcato con lui sulla fregata Tancredi. Gli preannunciava una visita durante il suo prossimo viaggio via terra da Taormina a Siracusa dove viveva la sua famiglia.
Questa notizia provocò in lui mille contrastanti emozioni perché Alfio certamente sapeva, conosceva i dettagli della situazione meglio di lui che stava affogando in quel disperato e crudele silenzio.
Infatti era stato proprio lui a presentargli Adelina, sua cugina di secondo grado, alla festa di sant’Agata a Catania ove la fregata aveva attraccato e loro erano scesi in libera uscita per alcune ore.
È forse stato inviato da Adelina, mi reca un suo messaggio? Ma se è così, perché non mi ha scritto lei? Forse è gravemente malata o qualcuno della famiglia ci vuole separare?pensava mentre rigirava tra le mani il messaggio rileggendolo per l’ennesima volta e cercando di cogliere qualche sfumatura che lo aiutasse a capire.
Aspettò ansiosamente il suo arrivo e quando si incontrarono si abbracciarono fraternamente.
Quel giovane biondo con gli occhi azzurri tradiva lontani ascendenti normanni ed era questo un tratto molto ricorrente nel casato dei Richera, grossi latifondisti di Siracusa. Essendo il terzogenito, aveva intrapreso la carriera militare mentre il secondogenito era divenuto prete ed al primo erano toccate le proprietà dopo aver in parte indennizzato i fratelli.
Lo fece accomodare nella sua modesta casa scusandosi per l’ estrema semplicità dell’ambiente a cui certo il suo amico non era avvezzo.
Parlarono della fregata Tancredi, di alcuni loro commilitoni e della mutata situazione politica poi Alfio continuò:
«Amico mio, quanti cambiamenti! Avevamo una vita tranquilla che andava in una certa direzione ed ecco invece che sbarca questo Garibaldi e rivoluziona tutto».
« E allora io che dovrei dire?» sbottò Egisto, « avevo una brillante carriera innanzi, certezze economiche che la mia famiglia non avrebbe potuto garantirmi, mille prospettive ed invece mi ritrovo con una mano menomata e solo come un cane su questo scoglio davanti al Mediterraneo»
« Anch’io ho dovuto rivedere i miei progetti» annuì col capo l’amico, «per ora aiuto mio fratello nella conduzione della proprietà terriera, poi si vedrà. Certamente non diventerò ricco ma potrò campare con tranquillità. Ma tu, pensi di rimanere qua? Non hai altri progetti?»
Poi si morse la lingua ed abbassò gli occhi rendendosi conto della gaffe e della tristezza provocata che leggeva negli occhi dell’amico.
«Già…», continuò imbarazzato,«Adelina. Capisco.»
Al che, Egisto mollò ogni remora, ogni convenevole e chiese con voce incrinata dalla forte tensione:
«Dimmi, in tutta sincerità, cosa diavolo sta accadendo a Catania e a Adelina? Raccontami bene tutto in modo che io possa capire».
Poi, all’imbarazzato silenzio dell’altro, continuò:«Tu lo sai, è evidente».
Allora Alfio, cercando di misurare le parole:« Sì, sono stato di recente nella casa di campagna dove si sono rifugiati ed ho parlato con gli zii ed Adelina».
«Allora sta bene… perché non risponde alle mie lettere?»
Poi indicando tutto intorno con un gesto della mano:
«Vedi? Ho preparato tutto per lei, per quando verrà… ».
E poi: «Anche i gabbiani, i pesci, le nuvole conoscono ormai il suo nome per quanto parlo loro di lei».
Egisto lo guardò un attimo in silenzio poi prese un lungo respiro e:
«Conosci Adelina. La famiglia l’ha sempre trattata come una principessa, non è adatta ad una vita semplice in cui si dovrebbe rimboccare le maniche. I genitori l’hanno sempre spinta a frequentare ambienti esclusivi in modo da incontrare un uomo di un certo livello sociale ed economico».
Allora Egisto:
«Non c’erano davvero problemi per questo quando ci siamo conosciuti ed anche dopo l’incidente che mi è capitato, mi è stata vicina mostrandomi sempre un grande attaccamento».
La conversazione stava arrivando al nodo dolente ed Alfio appariva alquanto imbarazzato.
«Sai, le cose cambiano purtroppo e la lontananza non aiuta di certo i sentimenti… poi Adelina è così giovane, ha voglia di cose belle, di divertirsi».
« Ma che diavolo dici! Io vivo per lei, sogno di lei. Sta qui, sempre qui, riempie tutto questo mio stupido cuore. In me la lontananza non ha spento il sentimento, anzi, lo ha acutizzato. Non farmi sentire questi discorsi… no».
Iniziava ad agitarsi e tutti i cupi pensieri ricacciati indietro, sepolti da tempo sotto strati di illusioni e pietose bugie che si era raccontato da solo, iniziarono ad incendiargli la mente.
«Che cosa mi sei venuto a dire? Dillo chiaramente da uomo e da amico. Forza, dai».
Allora Alfio sferrò il colpo finale, certamente più misericordioso di quella lenta agonia fatta di allusioni.
«Ecco, Adelina mi ha incaricato di dirti che desidera sciogliere il vostro fidanzamento perché, pur essendoti ancora affezionata, non si sente in grado di condividere con te questa vita».
E con ciò, tirò fuori dalla tasca una scatolina, la scatolina con l’anello di brillanti che Egisto le aveva donato.
«No! No!»prese ad urlare prendendo a pugni il tavolo e gli sportelli di un mobile.
«E dice di essermi affezionata? Ma di che parla, io mi posso affezionare ad un gatto, ad un cane. Ma io non sono un cane, io la amo!»
Poi si fece rosso in viso, la bocca gli tremava mentre continuava a ripetere ma stavolta con la voce che sì era fatta lamento: «No…no. Perchè».
Poi improvvisamente, come preso da nuova energia:
«Basta. Lascio tutto qua in questo posto maledetto e parto per Catania. Troverò un altro lavoro, le parlerò e lei tornerà con me».
Tirò fuori da un mobile un borsone ed iniziò ad infilarci alla rinfusa alcuni effetti personali.
Alfio lo fermò prendendolo per un braccio: «Egisto, aspetta. Fermati…ascolta» ma l’altro era in una specie di allucinata frenesia e continuava a fare la valigia dicendo: «Adelina, arrivo subito e metteremo tutto a posto».
Come rende stupidi e ciechi l’amore e povero amico mio come ti sei ridotto! Pensai.
Mi faceva una gran pena, sentivo il suo dolore propagarsi e correre sulle mie pietre quasi fosse mio.
Finché Alfio si trovò costretto a dargli un pietoso colpo di grazia:« Le cose sono andate oltre… ora, da poco tempo sta frequentando un altro uomo, col beneplacito della famiglia».
Egisto si bloccò, lasciò cadere tutto, guardò negli occhi l’amico quasi a cercare un’ultima scintilla di speranza che gli dicesse che non era vero.
Poi si sedette, si coprì il volto con le mani e finalmente pianse.
«Ora però, cerca di reagire, amico mio» provò a consolarlo Alfio« sei ancora giovane, puoi cambiare lavoro… ti potrei aiutare ad inserirti da qualche parte e a rifarti un futuro. Tutto passa e si risolve, dai».
Ma l’altro continuava a piangere in silenzio.
Il suo amico restò ancora un po’ almeno fintanto che non gli sembrò un po’ più tranquillo e che avesse iniziato a farsene una ragione.
Accomiatandosi, lo abbracciò forte e gli dette un colpetto d’incoraggiamento su una spalla dicendogli:«Io ci sono sempre per te e, se hai bisogno di aiuto, chiamami. Mi raccomando sii forte».
Egisto gli rivolse un mesto sorriso.
Certo, pensai, ciò di cui avrebbe veramente bisogno, non glielo potrebbe dare mai.
Passarono alcuni giorni ed io lo osservavo, incapace di mitigare in alcun modo la sua sofferenza.
E maledicevo il destino che ha voluto dare a noi fari un cuore per nulla di pietra e s’è scordato di fornirci di una voce che sembrasse magari un soffio di vento con cui comunicare il nostro sentire.
Ogni tanto scendeva sulla spiaggia e con una piccola barca si recava a Serice per acquistare viveri, bersi uno, due, tre, troppi bicchieri di vino in compagnia e scambiare quattro chiacchiere con chi capitava.
E tirava avanti affogando il suo dolore in litri e litri di malvasia passito.
Lo vedevo tirare in secca la barca e rientrare con passo incerto, a zig zag da ubriaco.
A volte cantava a squarciagola con voce impastata alcune canzoni famose che parafrasava adattandole a ciò che sentiva:
«Amore , amore per una sottana
e tu, Adelina, sei una gran puttanaaaa.
E io cretino che ti davo amore
ho ricevuto da te solo dolore.
Adelinaaaaa brutta cretinaaa
di un bordello sei la reginaaa… ».
Passata la sbronza, lo vedevo calare in un cupo silenzio.
Aveva distrutto il ritratto di lei, l’anello l’aveva gettato nel mare, non scrutava più l’orizzonte perché non aspettava più nessuno e non aveva alcunché che lo distraesse da quel monotono tran tran quotidiano.
Smise di annaffiare i fiori, li lasciò morire quasi sadicamente di sete perché testimoni delle sue stupide illusioni. Li guardò appassire come il suo amore.
Quando saliva quassù alla lanterna, lo ascoltavo talvolta urlare nel vento, gridava la sua rabbia, la sua impotenza, la sua solitudine.
Poi non gridò neppure più, non ne aveva la forza.
E non guardava lontano perché l’ orizzonte era solo il suo cuore dolente e umiliato.
Era il 6 febbraio, il giorno dopo la festa di sant’ Agata quando arrivarono due tipi da Serice a controllare perché mai la notte precedente la mia luce fosse restata spenta.
Lo cercarono ovunque inutilmente; trovarono solo alcune orme sulla battigia della caletta in direzione del mare.
Lo avevo accompagnato con lo sguardo finché ho potuto.
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