Mia cara Evelyne, ti scrivo mentre sto ultimando i preparativi per quel mio viaggio che dall’Europa mi porterà fino alla lontana Australia, dove credo permanentemente di stabilirmi.
E’ dunque questa una lettera di addio.
Ma anche una confessione.
Una confessione che posso farti solo adesso che so, con certezza, che la distanza materiale di un’oceano eviterà a me l’imbarazzo della voce e a te quello dello stupore.
E’ una fuga la mia.
Ed una rivelazione.
Sto fuggendo da te, Evelyne, e dall’intensità di quel sentimento dirompente che sempre più spesso mi pervade alla tua presenza.
E al tuo pensiero.
Un desiderio lucido.
Vibrante.
Che non conoscevo prima di averti incontrata.
Nella consapevolezza di una passione univoca.
Inconfessabile.
Mi è capitato d’innamorarmi altre volte, ma non così.
Non con questo vitale, eppur doloroso, impeto.
Ti ho posseduta nei miei sogni.
Tante volte mi sono destata, dopo il tumulto di un delirio, da immaginarlo come davvero avvenuto.
Cercavo allora, ossessiva, tracce di te.
Il tuo sottile profumo.
Una forcina dei tuoi capelli.
Un guanto abbandonato su una poltrona.
Ma nulla.
Il giorno, impietosamente, sempre cancellava i tuoi passaggi notturni.
Cosicché avrei potuto vivere per sempre in una lunga, eterna notte, solo per sognare di sentirti respirare accanto a me.
Mi sono innamorata senza cercare i pretesti dell’amore.
Mi sei naturalmente entrata dentro come un soffio d’aria.
Ti ho inalata nei miei polmoni e così ho iniziato a respirare il tuo stesso ossigeno.
La ricordi la gita al lago?
E’ stata quella la volta che ho capito quanto davvero ti desiderassi.
Avevi un abito bianco, leggero come garza.
La falda del tuo cappello, nella controluce, aveva occultato metà del tuo viso in un cono d’ombra, e solo la tua bocca, color di geranio, spiccava vivida.
Carnalissima e luminosa.
Quanto ho desiderato baciare quelle tue labbra.
Un impulso forte, che mi ha fatto male.
Ma che pur mi ha eccitata.
Un brivido, che mai prima avevo provato.
D’allora ho cercato quel color di geranio in ogni fiore.
Nel miraggio di un prisma.
Nella tinta di una seta.
Oh Evelyne, come ci rende estranei, eppur terribilmente presenti a noi stessi, l’amore.
E più è inibito, impossibile a realizzarsi, più scava profonde radici nel nostro animo.
Diventa pensiero continuato.
Desiderio.
E delirio.
Ti ho talmente tanto agognata che nessun uomo, forse, lo farà mai con la mia stessa intensità.
Spogliare dell’abito bianco il tuo corpo di donna.
Stringerti tra le mie braccia.
Giocare coi tuoi capelli.
Accarezzare la tua pelle tutta, fino al limite di quelle tue caviglie così sottili che ben avrei potuto cingere con braccialetti di bimba.
O con la mia mano stretta a pugno.
Il mio amore mai ti avrebbe ferita.
Né fatto piangere.
O desiderare un uomo.
Ma sono solo io a provare questa passione.
E, di questo, nessuna colpa posso farti.
Nessun rimprovero.
Nessuna amarezza di amante respinta.
Non a tutti è concessa l’attrazione dello stesso sesso.
E così mai avrei potuto biasimarti se, alla fine rivelandomi avresti provato imbarazzo o, peggio ancora, repulsione nei miei confronti.
Sarei potuta partire senza lasciare traccia alcuna di questa mia passione, tenertene all’oscuro e lasciare intatto quello che, nello scorrere del tempo, sarebbe diventato sempre più il remoto ricordo di un’amicizia che solo a causa della distanza non è stato possibile consolidare.
Ma no.
Il mio amore per te rifiuta l’entità di ricordo sbiadito.
Una delle tante casuali presenze di passaggio nella tua vita.
Vorrei, però, lasciarti qualcosa di mio.
Di pulsante e di vivo.
Voglio lasciarti il mio cuore.
Non gettarlo via, Evelyn, perché nel coraggio di questo mio amore confessato non c’è nulla di spregevole.
O peccaminoso.
E’ il mio cuore nudo, quello che ti lascio.
Non gettarlo via, ti prego, come un orpello disgustoso.
Un oggetto immondo, di cui disfarsi.
Ma serbalo in quel cassetto segreto che ogni donna possiede.
Tra i tuoi nastri ed i tuoi pettinini.
E le lettere dei tuoi ammiratori.
Tua, per sempre
Clea
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