Il genere giallo ti affascina e vorresti scriverne, ma proprio non sai da dove iniziare?
Lo capisco: tutti quegli incastri, quelle caratteristiche di genere inibiscono la tua creatività.
E se invece partissimo proprio dalle regole del genere? Se le usassimo, in modo preciso, come stimolo per dare il via al processo generativo?
Dei limiti precisi possono suggerirci come riempire la pagina bianca.

Nel corso di questo articolo tracceremo quel perimetro: quello fatto di tutte le caratteristiche e regole da tenere a mente quando si scrivono racconti e romanzi polizieschi.

Le regole del genere giallo come punto di partenza

Cominciamo con una precisazione puntigliosa ma necessaria: il termine giallo è tipicamente italiano e deriva dal colore della copertina della famosa collana della Mondadori. All’estero è sconosciuto, per cui sarebbe meglio discutere di romanzi o racconti polizieschi, investigativi eccetera. Ma parliamo del genere, che è più divertente.

Sì, perché il poliziesco è un genere vero e proprio, come lo è la fantascienza, il romanzo rosa, quello di spionaggio e così via. Fin qui nulla di male, dividere in generi, catalogare, è un vezzo proprio di chi non sa creare nulla di originale, si dice. Il problema è che un genere ha le sue regole, e per quanto siano ammesse le eccezioni non è bene abusarne, altrimenti si finisce per scrivere un’altra cosa, o per confondere il lettore.

Quest’ultimo, quando si accinge a leggere un qualcosa etichettato come giallo si aspetta di ritrovare determinati canoni, altrimenti non ci si raccapezza più e perde interesse alla lettura: a tutti sarà capitato di fermarsi ad un terzo di un libro e chiedersi ‘ma cosa diavolo sto leggendo?’.
Dite la verità, avete continuato a leggere o vi siete ricordati di avere qualcosa di più importante da fare?

Mi direte: e il giallo fantascientifico? Il romanzo giallo-rosa, giallo-nero, giallo-verde? (No, l’ultimo genere me lo sono inventato io, ma magari lo vedremo spuntare fuori prima o poi).
Semplice: sono commistioni, ma questo significa che devono rispettare le regole di entrambi i generi.

È chiaro che all’interno del genere saranno possibili molte variazioni, a seconda della fantasia e del retroterra culturale dell’autore, ma le regole sono fatte per avere un punto di partenza, non per insegnare a scrivere polizieschi ad Agatha Christie (anche se lei le regole le rispetta, eccome!), quindi vediamo di fare qualche riflessione che spero condividerete.

Cominciamo con un classico: il famoso decalogo di Ronald Knox comparso nell’introduzione alla raccolta The Best Detective Stories of 1928-29 (vecchiotto, eh? Consoliamoci, il mondo è nato prima di noi e la gente sapeva già scrivere e leggere).
Il decalogo contiene le dieci regole che ogni romanzo poliziesco di tipo deduttivo dovrebbe rispettare per consentire anche al lettore di arrivare alla soluzione dell’enigma proposto.
Questo perché all’epoca l’opinione corrente era che il giallo fosse una specie di gioco tra autore e lettore per dipanare un mistero proposto in maniera onesta, cioè fornendo a quest’ultimo tutti o quasi gli elementi necessari per farlo. Elegante, no?
È proprio quello che ci piace nei tanti romanzi di Ellery Queen, della Christie o di Edgar Wallace che abbiamo letto, ed anche se il genere ha avuto una notevole evoluzione fa sempre piacere quando ci troviamo di fronte ad una storia ben costruita.

Decalogo di R. Knox

  1. Il colpevole dev’essere un personaggio che compare nella storia fin dalle prime pagine; il lettore non deve poter seguire nel corso della storia i pensieri del colpevole.
  2. Tutti gli interventi soprannaturali o paranormali sono esclusi dalla storia.
  3. Al massimo è consentita solo una stanza segreta o un passaggio segreto.
  4. Non possono essere impiegati veleni sconosciuti; inoltre non può essere impiegato uno strumento per il quale occorra una lunga spiegazione scientifica alla fine della storia.
  5. Non ci dev’essere nessun personaggio cinese nella storia.
  6. Nessun evento casuale dev’essere di aiuto all’investigatore, né egli può avere un’inspiegabile intuizione che alla fine si dimostra esatta.
  7. L’investigatore non può essere il colpevole.
  8. L’investigatore non può scoprire alcun indizio che non sia istantaneamente presentato anche al lettore.
  9. L’amico stupido dell’investigatore, il suo “dottor Watson”, non deve nascondere alcun pensiero che gli passa per la testa: la sua intelligenza dev’essere impalpabile, al di sotto di quella del lettore medio.
  10. Non ci devono essere né fratelli gemelli né sosia, a meno che non siano stati presentati correttamente fin dall’inizio della storia

Un piccolo appunto a proposito della 5): all’epoca c’era una tale inflazione di cinesi nei romanzi polizieschi che nessuno li sopportava più.

Come si può vedere un gioco elegante, forse anche troppo. Vediamo un altro elenco di regole, questa volta di S.S. Van Dine, uno specialista del genere che nel 1928 su American Magazine pubblicava l’articolo Twenty Rules for Writing Detective Stories, tradotto in italiano soltanto nel 1976. Cosa suggeriva Van Dine?
Ecco il suo deca, anzi, vent…, vabbè, elenco di venti regole:

Le Venti Regole di S.S. Van Dine

  1. Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti.
  2. Non devono essere esercitati sul lettore altri sotterfugi e inganni oltre quelli che legittimamente il criminale mette in opera contro lo stesso investigatore.
  3. Non ci dev’essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all’altare.
  4. Né l’investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è un buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.
  5. Il colpevole dev’essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, o coincidenza, o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia per dirgli poi che tenevate nascosto voi in una manica l’oggetto delle ricerche. Un autore che si comporti così è un semplice burlone di cattivo gusto.
  6. In un romanzo poliziesco ci dev’essere un poliziotto, e un poliziotto non è tale se non indaga e deduce. Il suo compito è quello di riunire gli indizi che possono condurre alla cattura di chi è colpevole del misfatto commesso nel capitolo I. Se il poliziotto non raggiunge il suo scopo attraverso un simile lavorio non ha risolto veramente il problema, come non lo ha risolto lo scolaro che va a copiare nel testo di matematica il risultato finale del problema.
  7. Ci dev’essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev’essere remunerato!
  8. Il problema del delitto deve essere risolto con metodi strettamente naturalistici. Apprendere la verità per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, la lettura del pensiero, suggestione e magie, è assolutamente proibito. Un lettore può gareggiare con un poliziotto che ricorre a metodi razionali: se deve competere anche con il mondo degli spiriti e con la metafisica, è battuto ab initio.
  9. Ci deve essere nel romanzo un poliziotto, un solo “deduttore”, un solo deus ex machina. Mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa non soltanto disperdere l’interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c’è più di un poliziotto, il lettore non sa più con chi sta gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta.
  10. Il colpevole deve essere una persona che ha avuto una parte più o meno importante nella storia, una persona cioè, che sia divenuta familiare al lettore, e lo abbia interessato.
  11. I servitori non devono essere, in genere, scelti come colpevoli: si prestano a soluzioni troppo facili. Il colpevole deve essere decisamente una persona di fiducia, uno di cui non si dovrebbe mai sospettare.
  12. Nel romanzo deve esserci un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. Ovviamente che il colpevole può essersi servito di complici, ma la colpa e l’indignazione del lettore devono ricadere su un solo cattivo.
  13. Società segrete, associazioni a delinquere et similia non trovano posto in un vero romanzo poliziesco. Un delitto interessante è irrimediabilmente sciupato da una colpa collegiale. Certo anche al colpevole deve essere concessa una “chance”: ma accordargli addirittura una società segreta è troppo. Nessun delinquente di classe accetterebbe.
  14. I metodi del delinquente e i sistemi di indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè senz’altro escluse la pseudo-scienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Jules Verne. Quando un autore ricorre a simili metodi può considerarsi evaso, dai limiti del romanzo poliziesco, negli incontrollati domini del romanzo d’avventura.
  15. La soluzione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che vi sia un lettore sufficientemente astuto per vederla subito. Se il lettore, dopo aver raggiunto il capitolo finale e la spiegazione, ripercorre il libro a ritroso, deve constatare che in un certo senso la soluzione stava davanti ai suoi occhi fin dall’inizio, che tutti gli indizi designavano il colpevole e che, se fosse stato acuto come il poliziotto, avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza leggere il libro sino alla fine. Il che – inutile dirlo – capita spesso al lettore ricco d’istruzione.
  16. Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni troppo diffuse, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche troppo insistenti, presentazioni di “atmosfera”: tutte cose che non hanno vitale importanza in un romanzo di indagine poliziesca. Esse rallentano l’azione, distraggono dallo scopo principale che è: porre un problema, analizzarlo, condurlo a una conclusione positiva. Si capisce che ci deve essere quel tanto di descrizione e di studio di carattere che è necessario per dare verosimiglianza alla narrazione.
  17. Un delinquente di professione non deve mai essere preso come colpevole in un romanzo poliziesco. I delitti dei banditi riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto veramente affascinante non può essere commesso che da un personaggio molto pio, o da una zitellona nota per le sue opere di beneficenza.
  18. Il delitto, in un romanzo poliziesco, non deve mai essere avvenuto per accidente: né deve scoprirsi che si tratta di suicidio. Terminare una odissea di indagini con una soluzione così irrisoria significa truffare bellamente il fiducioso e gentile lettore.
  19. I delitti nei romanzi polizieschi devono essere provocati da motivi puramente personali. Congiure internazionali ecc. appartengono a un altro genere narrativo. Una storia poliziesca deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, costituisce una valvola di sicurezza delle sue stesse emozioni.
  20. Ed ecco infine, per concludere degnamente questo “credo”, una serie di espedienti che nessuno scrittore poliziesco che si rispetti vorrà più impiegare; perché già troppo usati e ormai familiari ad ogni amatore di libri polizieschi. Valersene ancora è come confessare inettitudine e mancanza di originalità:
  • scoprire il colpevole grazie al confronto di un mozzicone di sigaretta lasciata sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospettati;
  • il trucco della seduta spiritica contraffatta che atterrisca il colpevole e lo induca a tradirsi;
  • impronte digitali falsificate;
  • alibi creato grazie a un fantoccio;
  • cane che non abbaia e quindi rivela il fatto che il colpevole è uno della famiglia;
  • il colpevole è un gemello, oppure un parente sosia di una persona sospetta, ma innocente;
  • siringhe ipodermiche e bevande soporifere;
  • delitto commesso in una stanza chiusa, dopo che la polizia vi ha già fatto il suo ingresso;
  • associazioni di parole che rivelano la colpa;
  • alfabeti convenzionali che il poliziotto decifra.

 

Anche i moniti alla fine dell’elenco appartenevano a Van Dine, per cui se erano già vecchi ai suoi tempi forse è meglio che rinunciamo alla tentazione di usarli nei nostri racconti…

Come avrete avuto modo di notare, questi suggerimenti più che aiutare a scrivere un buon poliziesco possono aiutarci ad evitare di scriverne uno troppo brutto, o scontato.

Suggerimenti validi per tutti i generi

Altri suggerimenti, raccolti qua e là, valgono per i gialli come per gli altri generi di scrittura, comunque non è male ricordarli:

  • Attenzione al gergo che usate! Le descrizioni, il linguaggio dei protagonisti, il loro modo di muoversi deve essere adeguato all’ambientazione che avete scelto. Uno spacciatore di Quarto Oggiaro non si comporterà come un Marlowe né come un sofisticato personaggio dell’alta borghesia (per antipatico che possa essere). Allo stesso modo un’indagine condotta nella Napoli degli anni trenta non avrà lo stesso ritmo di una che si svolge nella Los Angeles di oggi o tra i narcos di Medellin, e sono da evitare  termini che non appartengono al contesto che stiamo raccontando, anche se sul momento ci sembra che stiano bene (marketing, background eccetera NON stanno bene in gialli storici…). Non solo: pensiamo a quanto sarebbe assurdo un investigatore italiano che agisce come un Sam Spade!
  • Attenzione alle idee troppo brillanti! È probabile che ce l’abbiamo in testa perché le abbiamo già lette da qualche parte, e state tranquilli che il vostro lettore si ricorderà benissimo dove avete copiato, anche se ne siete inconsapevoli. Ma andateglielo un po’ a spiegare!
  • Il mondo del poliziesco è pieno di personaggi molto caratterizzati, al punto di far pensare che una volta che ci siamo inventati il nostro il romanzo si scrive da solo (e non è vero!). Pensiamo a Nero Wolfe, Sherlock Holmes, Poirot e innumerevoli altri. Il problema è che il confine tra personaggio caratteristico e caricatura è molto sottile: attenzione!

Gli artifici di cui avvalerci per scrivere un giallo

Gli artifici che si possono usare sono quelli tipici del romanzo, anche se per le caratteristiche proprie del genere è usuale mettere l’accento più sulla trama che sulle descrizioni fini a se stesse, per evitare di rallentare troppo l’azione, che deve essere sempre sostenuta: il lettore si aspetta di vivere un’emozione, di essere coinvolto, altrimenti finirà per annoiarsi e perdersi nell’infinità di dettagli inessenziali di cui abbiamo infarcito il nostro racconto. Noi non siamo Stephen King e nessuno ci leggerà per fedeltà al nostro nome, ad eccezione della nostra mamma (e talvolta neanche lei). Quindi non facciamo mancare suspense, colpi di scena, variazioni del ritmo narrativo, all’occorrenza flashback per introdurre elementi necessari alla vicenda mostrandoli invece che raccontandoli. E proposizioni brevi: Baricco non scrive gialli (perlomeno, non classici) e se lo facesse userebbe un linguaggio diverso da quello che usa normalmente.

Quanto detto vale sia per i romanzi che per i racconti, anche se la diversa lunghezza dei testi porterà ad una differenziazione della struttura, che per il racconto potrà riguardare anche solo alcune inquadrature di tutta la storia, facendo in modo che sia il lettore a riempire le parti mancanti.
È una tecnica sofisticata ma di grande effetto, ricorrente nei racconti di grandi autori, ma di questo magari parleremo in una sezione dedicata al racconto.
Quello che deve essere chiaro è che anche il racconto giallo deve rispettare le caratteristiche essenziali del genere, quindi che ci si dilunghi fino a sfiorare le dimensioni del romanzo o che si riesca a giocare abilmente con il sottinteso ci deve essere una trama con dei protagonisti ben individuati, uno o più crimini, un colpevole e un modo per consentire al lettore di scoprirlo, insomma, tutto quello che è necessario per poter mettere alla nostra opera l’etichetta di ‘poliziesco’.