Esiste davvero il mal d’Africa, non è una favola. A livello personale, l’ho appena sfiorato una volta, per colpa di una settimana a Zanzibar. Da dove mi son ritrovato a far di tutto per ritardare la partenza, sebbene, a tutti gli effetti, dell’Africa vera, stando in un villaggio turistico, ben poca cosa avevo avuto modo di vedere.
Ma prima di questo viaggio in realtà ne avevo fatti molti altri nel mitico Continente Nero, sebbene solo sfogliando (chi l’avrebbe mai detto!) le pagine di molti libri. Ovviamente, come chiunque, ero e sono imbottito di immagini di bestie feroci, di savane, di deserti e di danze tribali, più o meno rese emblematiche e misteriose dalle figure di uomini e donne che sono, a quanto pare, quel che resta dei nostri progenitori diretti.
Dimenticavo: son stato molte volte in Egitto, ma quello è un altro mondo, non è Africa, almeno non più. Lo era di certo al tempo dei Faraoni ed a casa ho un ampio scaffale occupato da questa incredibile, fantastica civiltà (probabilmente un capitolo dovrò spenderlo in proposito). Oggi dell’Africa, sulle sponde del Nilo, c’è rimasto ben poco.
Quando dico d’aver conosciuto questo mondo affascinante, non mi riferisco dunque all’ampia produzione di testi che ne parlano, che siano saggi o meno. Un incontro particolare lo devo invece ad un certo signor Smith… si può immaginare un cognome meno generico nel mondo anglosassone? Probabilmente no e forse per questo motivo un po’ meno generico è il nome: Wilbur.
Nessuno pubblicava Wilburn Smith… breve biografia
Wilbur Smith è un attempato signore: difficile, a vederne le foto, immaginare qualcosa di meno africano e di più anglosassone. Nato nello Zambia è, inequivocabilmente, il classico discendente dei colonizzatori europei che, dove più dove meno, in tutto quel vasto continente hanno brillato in crudeltà umane e avidità di rapina. Sino a quella che di certo è stata una delle macchie più pesanti della cosiddetta “cultura” occidentale: lo schiavismo prima e l’apartheid dopo.
E la sua biografia, almeno sino ad un certo punto, è quella standard di tanti bianchi che, nati in Africa, vivono i privilegi sociali determinati dalla razza. Fa il contabile, niente di meno… ma, evidentemente, qualcosa nel suo DNA, non riesce ad adeguarsi alla sua “facies”: scrive libri di avventura. Che regolarmente vengono rifiutati dagli editori. Tutto sommato la cosa non sorprende: siamo a cavallo degli anni ’50 e ’60, l’Africa è un mondo ancora fortemente coloniale e, come si conviene alle civiltà “illuminate” che hanno appena prodotto soggetti quali Hitler e Mussolini, è tristemente dominata dal razzismo e, soprattutto, dall’opportunismo predatorio del commercio mondiale. L’Africa è terra ricca di minerali, oro e diamanti soprattutto, ma anche altri nuovi che il progresso scientifico mette sempre più in primo piano e che fanno gola agli affaristi del Nuovo e Vecchio Mondo. Logico che quelle storie, che ripercorrono anche le origini di determinati sviluppi storici e, senza magari sbilanciarsi troppo, mettono in bell’evidenza la crudeltà delle civiltà “avanzate”, risultano un bel po’ indigeste.
Ma poi, alla fine, si tratta di storie d’avventura e un qualche editore (inglese) alla fine lo si trova… ve la faccio corta: a tutt’oggi Wilbur Smith ha scritto una cinquantina di romanzi ed ha venduto, in giro per il mondo, qualcosa come 122 milioni di copie. Quasi tutti i romanzi riguardano l’Africa, la sua storia (romanzata) e andrebbero pure letti in un certo ordine dal momento che ci sono più filoni che raccontano le storie, immaginate, fantasiose ma estremamente realistiche di quanto accaduto in Africa negli ultimi due-tre secoli, tramite più “saghe” familiari.
A questo punto mi corre l’obbligo (come si diceva un po’ di tempo fa) di puntualizzare un paio di cose. La prima è che stiamo parlando di letteratura d’avventura. Nulla a che vedere coi grandi classici alla Salgari per intenderci, ma pur sempre avventura. La seconda è che alla lunga, il nostro autore diventa un po’ noioso e forse, ripetitivo.
In più mi pare già d’aver accennato al fatto che non sono un grande amante di questo genere. Però, evidentemente, al tempo del mio incontro con Wilbur, “tenevo bisogno” di ruggiti, di barriti e di d’una trasfusione di savana.
Per colmare il mal d’Africa
Come già accennavo all’inizio, non conosci l’Africa perché hai visto le piramidi o perché hai preso il sole sulle bianche spiagge di Zanzibar. E, aggiungo, neppure se hai fatto un safari (rigorosamente fotografico, eventualmente) in Kenya. Lo dico conscio che quest’ultima esperienza mi manca e, ragionevolmente, è questa ormai una lacuna impossibile da colmare.
Se ho una simile certezza, lo devo anche alle pagine si Smith: al di là dell’ovvio e persino scontato “artifizio letterario”, è lì che trovi un che di speciale. Un amore vero, profondo, totale per quella terra così diversa dal nostro “asettico” e esangue mondo occidentale.
Non si tratta, almeno non solo, di “spettacolarizzazione”. Forse lo è, in parte, ma c’è qualcos’altro. Una malattia, appunto che va a sommarsi all’amore che ciascuno nutre, chi più, chi meno, per le proprie radici. Smith ama profondamente la “sua Africa” (molto diversa, mi si permetta la digressione, da quella di Karen Blixen che, film a parte, non m’ha minimamente convinto), ama la storia della sua terra, ama i tramonti, le fiere selvagge e la durezza della gente che quei posti abita ed in cui lotta per sopravvivere. E si propone di celebrarla.
Il resto, il racconto, la trama è strumentale (pur con tutta la sua profondità “storica”) e, come accennavo, alla fine tende a ripetersi ed a scadere. Il che è problema di tanti scrittori di successo: han qualcosa da dire, lo dicono ed i lettori lo apprezzano. Inevitabilmente gli editori – che non son più, purtroppo, quelli di una volta – giusto per restare nel paesaggio africano, son peggio di avvoltoi che debbono spolpare ogni brandello di carne, sino a lasciare al sole solo le ossa. Con o senza la convivenza degli autori i quali, probabilmente anche loro, non son più quelli d’una volta. In questo mondo dominato dall’assioma della “vendita” a tutti i costi è cosa complessa muoversi fuori dal coro.
Ma questo ci porta un po’ troppo lontano dai miei scaffali e se come lettore sono appena qualificato, non lo sono certo come “interprete” dei tempi che vivo. Quello che posso affermare è che in un certo momento della mia vita, quello “giusto” probabilmente, ho divorato romanzi d’avventura sebbene il genere non goda i miei favori. Penso non sarebbe stato possibile se non avessi incontrato, almeno all’inizio, un uomo profondamente innamorato d’una terra e d’una cultura destinate probabilmente a svanire, almeno in gran parte. Così m’è accaduto di contrarre un (accenno di) virus: il Mal d’Africa, di cui, nella prossima vita, intendo ammalarmi più seriamente e curarmi poi adeguatamente, come si conviene…
Vi rimando al sito con la bibliografia completa di Wilbur Smith. Tutti i libri presentano una breve descrizione e sono divisi per filoni.