(Foto di Richard Avedon)

Forse non era un caso se, anche quel giorno, stavo passando proprio di là.
Li avevo già notati altre volte, quei due.
Alti, dinoccolati, pure un po’ curvi, gli abiti stazzonati dall’attesa su quella panchina di un legno ormai consunto da tempo e intemperie.
Persino il terreno davanti ad essa mostrava ormai i segni del ripetuto e prolungato calpestio, a turno, di quelle quattro scarpe dalla suola grossa, testimonianza di impazienti attese e di brevissimi e ripetitivi percorsi obbligati.
Così, anche quel giorno li rividi.
Sempre lì, accanto a quella panchina, in piedi, l’uno di fronte all’altro. Discutevano.
Ma i loro toni non erano accesi, sembravano piuttosto pacati, invece, educati, persino sorpresi.
Sono passata loro accanto, volgendo uno sguardo furtivo nella loro direzione, per distoglierlo immediatamente dopo averli superati, ma non così frettolosamente da non riuscire a captare mozziconi del loro discorso, probabilmente sempre lo stesso, da giorni.
Mentre acceleravo il passo con calcolata nonchalance, udii chiaramente un nome uscire dalle labbra del più vicino a me di quei due:
“Godot”.
Stavano aspettando Godot.
Stanno aspettando Godot.

Ancora.