Il tavolino era di metallo, come la sedia, gelido. Sicuramente d’estate saranno stati roventi: che idea usare attrezzature del genere a Krasnodar!
Lo zavarka in compenso era bollente, almeno finché restava nel samovar. Poi quando sarebbe stato diluito con il kipjatok avrebbe ripreso vigore.
C’era già aria di inverno, nel capoluogo del kraj, tempo di migrare verso lidi più caldi. Cosa lo tratteneva ancora in quella città grande ma non grandissima, ricca ma povera nei suoi abitanti, troppo moderna per avere un cuore? Una città di case basse, anonime, eppure tranquille. Ecco cosa gli piaceva: la tranquillità, quella che non avrebbe mai trovato a Mosca o San Pietroburgo, bellissime ma caotiche.
E naturalmente dove c’era tanta gente ma nessuno che si agitassse troppo si potevano fare buoni affari, almeno nel campo di Alfredo.

Con l’abitudine a guardarsi intorno che era frutto di una lunga esperienza, vide la coppia avvicinarsi al suo tavolo e sedersi. Dopo una vita trascorsa a girare il mondo, Alfredo non si stupiva quasi più di niente, ma era inusuale un approccio di quel tipo, specialmente da parte di due persone, perciò indugiò un attimo prima di sollevare il capo dalla copia del NYT che fingeva di leggere e li guardò con aria interrogativa.
L’uomo era di mezza età, vestito in maniera dimessa, cosa comune in quei luoghi, capelli castani, un accenno di baffi, occhi scuri, nervosi. Lei indossava un vestito in due pezzi, troppo leggero per la stagione, e portava un foulard sulla testa che nascondeva i capelli biondi. Sembrava di qualche anno più giovane dell’altro.
Subito l’uomo cominciò a parlare, in russo. Alfredo conosceva bene la lingua, ma era indispettito da quella mancanza di educazione, per cui fece finta di non capire.
«YA ne ponimayu russkikh, mne ochen’ zhal’» disse, in modo abbastanza maccheronico.
L’altro lo guardò quasi stupito: evidentemente non aveva messo in conto di doversi esprimere in un idioma diverso dal suo.
«English, français, deutch?» chiese Alfredo, «esperanto?»
In realtà non parlava fluentemente esperanto, era solo per confondere ulteriormente il suo interlocutore.
Vide che i due si guardavano incerti. Si consultarono un attimo, sottovoce, poi lui azzardò:
«English?»
Accennò di sì con la testa. Sorrisero. Evidentemente volevano proporgli qualcosa, ma cosa? Lei non aveva l’età per essere una prostituta né ne aveva l’aspetto, ma forse avevano in mente una prestazione particolare… qualcosa di strano. E’ vero che Alfredo era convinto di avere visto tutto quello che si poteva vedere, ma come si suol dire c’è sempre qualcosa da imparare.
«Ok», disse «fatemi vedere la vostra mercanzia».
Vide che l’uomo lo guardava senza capire.
«Cosa avete da vendermi?» tagliò corto, brutalmente, pentendosi di non aver accettato di conversare in russo.
Il sorriso ritornò sui loro volti. Lui tirò fuori il cellulare, cercò qualcosa nella memoria, una foto, e gliela lo porse. Era un cellulare cinese di ultima generazione, lo schermo da cinque pollici e mezzo. L’italiano guardò l’immagine, sembrava una foto ‘snuff’.
Volevano vendergli questa cosa? Ma non avevano internet? Alzò le spalle.
«Non mi interessa!» rispose.
Ci fu come un attimo di panico, poi a lei venne in mente qualcosa.
«No, non foto», disse in un inglese molto stentato, «vera, proprio così!»
Riprese il cellulare e guardò meglio. Si vedeva l’immagine di una donna, nuda, coricata per terra. Sembrava avere delle amputazioni, ma il corpo era parzialmente coperto dalle foglie.
«Non mi interessa», ripeté.
I due parlarono ancora un istante tra loro, poi dovette venirgli un’altra idea. Lui digitò qualcosa sul cellulare e gli mostrò un’altra fotografia.
In questo caso era un uomo ad essere disteso a terra, nudo anch’esso, e a lui mancava una gamba.
Alfredo scosse la testa, restituendo l’apparecchio.
«Spiacente, ma continua a non interessarmi», disse.
Lui lasciò ricadere le braccia sconfitto, ma lei non si diede per vinta.
«No, no» fece, cercando di mimare con i gesti, «no, non foto, tu non vedere solo!»
Stavolta fu l’italiano ad essere spiazzato.
«Cosa vuoi dire? Cosa significa ‘non vedere solo?’»
«Noi… conosciamo questo posto, possiamo portarti là».
«Andare là? E cosa dovrei vedere? Dei cadaveri in decomposizione?»
Fece per alzarsi, la conversazione stava diventando fastidiosa, ma i suoi interlocutori erano decisi a non farlo andare via. Lui arrivò ad appoggiargli una mano sul braccio per trattenerlo, ed Alfredo per un istante ebbe l’impulso di infilare l’altra mano nella giacca, dove indossava la fondina ascellare. Qualcosa del suo gesto doveva essere familiare ai due, perché la donna fu veloce nel far togliere la mano al suo compagno.
«No, Leonid, no», disse, «lei signore deve scusarci, è solo che dobbiamo farle vedere queste cose».
«Perché? Sono solo dei morti».
«Sì, ma perché sono morti?».
Alfredo si fermò. Qualcosa negli occhi della donna tradiva la sua disperazione e il suo bisogno di aiuto. Si risedette.
«Qualcuno li ha uccisi? Come?»
Adesso lei tremava visibilmente.
«Armi…»
«Armi chimiche? Gas?» l’incalzò Alfredo.
Intervenne l’uomo:
«No, noi crediamo… armi biologiche»
Alfredo rabbrividì. Chi erano queste persone? Da dove venivano? L’URSS, come gli USA, disponeva di grandi quantità di virus letali, custoditi in magazzini sotterranei di cui nessuno poteva garantire la custodia. Possibile che ci fosse stata una contaminazione? Le armi batteriologiche erano studiate per essere estremamente virulente ma anche in grado di decadere rapidamente per consentire la bonifica del territorio, quindi non era impossibile che… Ma perché si erano rivolti proprio a lui?
«Perché venite a raccontare tutto questo a me? Perché non siete andati alla Polizia?»
«Lei non sei Alfredo Canzi, il mercante italiano?»
Adesso cominciava a capire tutto.
«Non so di cosa state parlando», rispose, «io non conosco quella persona».
«Invece sì!» disse l’uomo «noi la conosciamo, mio padre le ha venduto molte armi, ai tempi del Muro».
Questo spiegava il resto.
«Mi dispiace», disse Alfredo in russo, «non tratto questo genere di roba: troppo pericolosa».
«Tre casse…»
«Come, tre casse?»
«Sono tre casse di legno, foderate di zinco all’interno. Sono in un deposito, a tuo nome».
Alfredo si alzò di scatto, quasi rovesciando il tavolino. Alcuni avventori di fianco a lui si girarono dalla sua parte.
«Ma voi siete pazzi!»
«No, abbiamo bisogno di soldi e non sappiamo come farli con quella roba, ma lei sì. Lei potrà guadagnare quello che vuole vendendo la merce in Africa o a dei gruppi di terroristi, noi lo sappiamo.»
Era fregato. Se li avesse denunciati nessuno gli avrebbe creduto, e se avessero trovato le fiale custodite a suo nome… meglio non pensarci!
«Non qui» disse, «parliamone in un posto sicuro!»
I due non fecero obiezioni, soddisfatti di essere riusciti a suscitare il suo interesse.
«Stasera alle 21, allo stadio del Krasnodar. Ci sarà una partita, sarà facile confonderci tra la gente.»
Assentì con un cenno della testa. Bene, aveva tutto il pomeriggio per inventarsi qualcosa.