Avrebbe dovuto capirlo. Era chiaro, tangibile, evidente. Una inversione di rotta, un cambiamento significativo. Avrebbe dovuto capirlo al risveglio. Impossibile mentire quando si aprono gli occhi e tutto torna nella quotidianità, nei gesti automatici che si innescano quando il corpo ricomincia a prendere coscienza del suo stato fisico. Si può avere mal di testa, sentirsi rintronati per le poche ore di sonno o gli eccessi alcolici, ma il linguaggio del corpo è trasparente, come se fosse generato involontariamente da un’entità distaccata dal cervello. Come se i gesti abituali fossero guidati da un DNA ancora più specifico di quello genetico. Si può trascorrere una intera notte a fare sesso della migliore qualità, sfinirsi di passione, soffocarsi di coccole. Ci si può spogliare di ogni pudore e insieme ai vestiti gettare sul pavimento paure ancestrali e decidere di aprire la porta segreta della propria anima, condividere mostri atavici annidati nei recessi più segreti del proprio vissuto, confessare l’inconfessabile, versare lacrime che si pensava asciugate dagli anni, darsi incondizionatamente all’altro come non si è mai fatto prima, sentirsi veramente una cosa sola, un’unica entità. E dopo dormire chiusi in un abbraccio dove i corpi si intrecciano in una struttura perfetta, gambe e braccia in un’armonia di forme che non richiede cambio di posizione, come se si dormisse con il pezzo mancante di se stessi. E al mattino si può essere premurosi e attenti, portare addirittura il caffè a letto o preoccuparsi della temperatura del succo di frutta e dire, come si fa con un bambino: “Bevi piano che è freddo.” Sembra una logica conseguenza di ciò che è rimasto impigliato nelle pieghe complici della notte.
Lei pensava a questo nei minuti solitari, rintanata sotto le coperte mentre lo sentiva trafficare in cucina. Sentiva dentro, o forse voleva sentire, forte e chiaro che si era compiuto qualcosa che da tempo aleggiava tra loro. Espandeva il proprio corpo in quel letto sfatto sentendosi bene. Non c’era altra parola per definire il suo stato: si sentiva bene, profondamente, completamente, semplicemente bene. Col senno di poi, rigirando nella testa i ricordi e le sensazioni, confessò controvoglia a se stessa che un embrione di dubbio in quei momenti che le erano sembrati magici e irreali, quando in perfetta solitudine stava assaporando qualcosa di molto vicino alla felicità, aveva sfiorato il suo intimo più profondo, ma lei aveva provveduto a ricacciarlo giù in fondo, a nascondere la polvere della paura sotto il tappeto della presunzione. E poi questa volta voleva evitare di farsi le solite mille domande che le avevano sempre rovinato la vita, creandole ansia e non facendole vivere completamente le cose belle che le capitavano. Eppure lui era diverso. Nei preparativi mattutini, nel rigore che metteva nei gesti, nelle poche parole, nella totale assenza di affettuosità, intesa come un gesto inequivocabile che poteva essere un bacio o una carezza o anche solo uno sguardo. ‘Dovrà metabolizzare il tutto’ si disse lei, ottenebrata dall’arroganza dei sentimenti. Intanto i vestiti erano stati raccolti, le frasi canoniche erano state dette: ”Vai prima tu in bagno, questi asciugamani sono puliti” disse lui porgendoglieli con una formalità da vecchia zia, pensò lei.
Sembrava un dialogo tratto da un copione già scritto, una strana danza a distanza tra due persone che fino a poco prima erano state una sola carne e una sola anima e lo erano state profondamente, consciamente. ‘Il corpo non mente’ lei si disse mentre lo specchio del bagno le rimandava l’immagine del suo viso e il suo sguardo lucente ma severo la scrutava con aria interrogativa. Era una frase ambivalente, e lei lo sapeva, ma naturalmente decise di intenderla con valore retroattivo, riferendosi alla notte appena trascorsa, a quel loro darsi e riceversi così potente, profondo, naturale e incredibile. ‘Va tutto bene, IO sto bene’ rispose lei ai suoi occhi indagatori.
Nulla è più facile che mentire a se stessi, lo si fa quasi con una particolare soddisfazione, come se farlo con una persona che non sia altro da noi non costituisca un errore, un peccato di presunzione o un infingimento pietoso che non vorremmo augurare ad un amico.
Lo sguardo nello specchio rimase impassibile nella sua severità, tra le pieghe stropicciate della sua anima si nascondeva una verità inconfessabile.
Uscì dal bagno e dalla sua palude personale con l’arroganza di un’adolescente alla sua prima notte fuori casa senza permesso: non c’era niente che non avrebbe potuto affrontare. Lui entrò in bagno, un abbozzo di sorriso mentre si incrociavano nel corridoio. Lei si avvicinò alla finestra, tirò su la tapparella e si accorse che stava nevicando. Rimase incollata ai vetri a guardare i fiocchi morbidi volteggiare nell’aria. Era felicemente stupita, una cosa inconsueta per la città dove viveva. Le sembrò un segno, un messaggio che solo lei poteva decifrare e un sorriso le distese le labbra e il cuore. Sì, un segno, una cosa così deve pur significare qualcosa e intanto si arrampicava lungo pareti invisibili e insidiose e le scalava con indicibili acrobazie che lei si ostinava a intendere come una normale salita in sicurezza.
Uscirono in strada, vicini ma separati, le mani in tasca avvolti dalla neve che continuava a cadere. Lei si sentiva felice mentre gli stivali affondavano nel morbido tappeto candido, il cappellino militare che lui le aveva prestato per non bagnarsi: un’altra piccola premura che le era sembrata un segnale d’amore. L’atmosfera era magica, sembrava di muoversi in un quadro o in una pagina di libro, frammenti di un racconto mai iniziato e mai finito. Un bacio distratto e scese dall’autobus. I suoi passi lasciavano orme precise sul selciato, lui era ormai lontano, tornato nel suo mondo esclusivo e ondivago, prigioniero dei suoi dubbi e delle sue paure. Ma lei non lo sapeva. O forse lo sapeva troppo bene, ma prima di dichiarare l’ennesimo fallimento aveva bisogno di pensare di poter ancora essere in grado di sentirsi felice.
Non voleva riconoscere il grande inganno dell’innamoramento, non voleva come nessuno lo vuole. Come nessuno è disposto ad ammettere che non ci si innamora di una persona, ma dell’idea che noi amiamo avere di essa, degli aspetti che noi pensiamo, vogliamo riconoscere nel suo modo di essere. Ci applichiamo a trovare atteggiamenti, intonazione della voce, frasi, parole, respiri che corrispondano al nostro ideale senza sapere o voler ammettere che di ideale si tratta, che la realtà è ben diversa. Non l’uomo, non la donna, ma l’idea, l’immagine che il nostro cuore e la nostra mente, il nostro sentire hanno costruito intorno al soggetto in questione.
Nei suoi occhi lei aveva visto la sua anima o aveva creduto di vederla in quelle ore notturne appartenute solo a loro. Si era sentita regina e padrona incontrastata della sua anima nuda e indifesa, ne aveva sentito l’orgoglio, l’unicità dell’istante consegnato alla sua personale eternità. E una cosa così, si era detta, poteva essere solo amore, quello vero, quello raro e incredibile che ti tocca una sola volta nella vita se sei fortunata.
Nulla di più errato. Era stata una proiezione del suo individuale percorso che incidentalmente aveva trovato lei sulla sua strada. A ben pensare, volendo essere onesta fino in fondo, mentre lui dava la stura ai dolorosi ricordi, ai rimorsi, al non fatto e non detto, non teneva in nessun conto le parole di lei, la sua presenza, era solo un monologo inesauribile e univoco che non cercava comprensione né condivisione. Lui voleva solo ascoltarsi, parlare pensando così di potersi vagamente autoassolvere e liberarsi dei fantasmi che lo inseguivano da tanto tempo.
Così il grande inganno si materializza e segna indelebilmente e inesorabilmente le nostre vite. Nel turbinio di quei fiocchi candidi e inaspettati, in quel mattino pieno di promesse e foriero di futura felicità, tutto è solo fantasia, un sottile fumo azzurrognolo che si espande e scompare all’orizzonte, un profumo di promesse perdute e mai sancite che squarcia il cuore come una lama di Toledo ben affilata. Lei in fondo lo sa, l’embrione della consapevolezza si agita dentro di lei e tenta di riportarla alla realtà, una realtà che lei non ama, che non vuole riconoscere, chiusa nella sua nuova corazza di certezze d’amore fasulle.
Amore, un parolone, cinque lettere che intimoriscono, tramortiscono. ‘Sì, a suo modo lui mi ama’ si incaponisce lei mentre sbriga le sue faccende quotidiane facendo sfuggire un pensiero impaziente. E’ troppo intelligente per non sapere che non è vero, è troppo adulta e navigata, razionale e con i piedi per terra per ammettere che ancora una volta tutto non è come sembra.
Eppure è la fame d’amore che da sempre la divora, da quando guardava sua madre sentendosi come un’appendice del suo corpo, inscindibile eppure minuscola, a tratti insignificante. Da quando cercava lo sguardo di suo padre su di se, di quel padre che scappava sempre altrove e un giorno era andato via per davvero. Lo aveva cercato, quell’amore, negli occhi grandi di quel compagno di classe che la guardava, ma la scherniva e sul quale lei aveva costruito un sentimento tanto granitico quanto inutile durato quasi mezzo secolo. Era rimasto ferito a morte nelle pieghe del suo matrimonio distrutto, si era avvitato su se stesso nei goffi tentativi di ricominciare. E adesso, lungo il finire di quel cammino, quando i fili bianchi dei capelli imbrigliavano i restanti brandelli di sogni, voleva ancora poter pensare alla possibilità di essere amata e lo voleva talmente forte da non sentire il dolore della sconfitta che già si faceva strada in lei.
Mentre girava il sugo nel pentolino, nella sua testa risuonava una melodia nota, parole d’amore lasciate al vento, un sorriso le attraversò il viso mentre le tornava alla mente un momento magico di quella notte. Ma gli occhi, i suoi occhi, che non sapevano mentire neanche a lei stessa, loro rimasero seri, scuri, un po’ bui, preparati alle lacrime che si stavano facendo strada nel suo cuore ancora una volta spezzato.