Il treno si fermò alla stazione di Santa Rosa con un gran rumore di freni e spandendo per l’aria odore di polvere d’acciaio e carbone bruciato.
Nonostante il ritardo sull’orario fosse di due ore abbondanti il macchinista scese e si infilò nel bar, per uscirne soltanto un quarto d’ora dopo con una bottiglia in mano e la massima tranquillità.
Anita e Miguel avevano osservato costernati il capostazione aggiornare il ritardo scrivendo con il gesso sulla lavagna e non potevano fare a meno di pensare al grande tabellone della Estación Central de Buenos Aires, con le sue lettere rotanti che frullavano come ali di colibrì. Naturalmente non c’erano colibrì in Argentina, ma Anita pensava al suo Brasile, e al caldo tropicale.
Rabbrividì, mentre finalmente il capostazione fece cenno di salire.
Poco dopo il treno si mise lentamente in moto, per poi acquistare velocità sulla pianura desolata.
I tre guardavano la campagna scorrere fuori dai finestrini.
«Questo treno è capace di fare settanta miglia all’ora» disse Miguel.
«Se non si guasta o i banditi non mettono un albero sulle rotaie» rispose Leandro.
«C’è davvero questo rischio?» chiese Anita.
«Siamo in fondo al mondo, ma non preoccupatevi, ho questa» ed estrasse la grossa pistola dalla fondina che portava al fianco.
«Vuole davvero andare in giro per Buenos Aires con quella?» domandò Miguel, incredulo.
«Mhm… no, credo che nella Boca troverò qualcosa di più moderno!» rise Leandro, soddisfatto della sua battuta.
Cinquecento miglia e quasi dieci ore dopo, il treno faceva il suo ingresso nella Estación Central. La sera era già calata sulla città, ma la nuova illuminazione a gas illuminava a giorno la stazione. Leandro si guardava in giro, meravigliato delle novità.
«Il progresso va avanti» disse Miguel, vedendo il suo stupore.
«Già, immagino che siano cambiate molte cose negli anni in cui sono stato via.»
«Meno di quanto credi» disse Anita, indicandogli le guardie a cavallo posizionate all’uscita della stazione.
In realtà i cambiamenti per Leandro erano molti: dalle stesse divise dei poliziotti, ora meno appariscenti, al numero di veicoli che circolavano per la città sollevando nuvole di vapore che ammorbavano l’aria: sembrava che tutti i mezzi commerciali avessero sposato quella causa, e adesso i tozzi locomotori stradali, come venivano chiamati, si incrociavano pazzamente con i tram – questi non tutti mossi dal vapore – e le biciclette, formando degli ingorghi tremendi che i conducenti tentavano di risolvere suonando a più non posso trombe ad aria che rompevano i timpani.
Vedendo che Soria si era fermato a guardare tutto quel caos, Miguel gli diede una gomitata.
«Scommetto che ai suoi tempi le strade erano più tranquille» disse.
Leandro alzò le spalle. «Seguro. Ma c’era molta più mierda.»
«Sempre romantico!» rise Anita.
L’argentino la guardò di traverso, finché non capì che la donna aveva parlato senza acidità.
«¡Soy un hombre del mundo!» rispose ridendo, andando poco oltre.
«Su, Leandro» disse Miguel, cercando di trascinare via il compagno che non cessava di fermarsi meravigliato ad osservare tutte quelle novità, «non possiamo restare qui tutto il giorno.»
Anita si mostrava maggiormente paziente, notando che l’atteggiamento di Leandro non differiva poi troppo da quello di molti forestieri scesi dal treno: evidentemente la differenza tra la capitale e le altre città della Federazione era molto forte.
«Ehi, e quello cos’è?» chiese l’argentino indicando un grosso apparecchio al centro della piazza munito di due sfere metalliche, intorno al quale si affaccendavano diverse persone.
Anche Miguel si fermò a studiare lo strano aggeggio. «Quello… non so» balbettò.
La sfera più grossa era posizionata su un alto cilindro di vetro, da cui usciva un asse nella parte inferiore, fissato ad una puleggia più piccola posizionata dentro alla sfera e collegata alla prima con una lunga cinghia di caucciù. L’asse era solidale alla ruota posteriore di una bicicletta appoggiata su un supporto e un uomo spingeva freneticamente sui pedali, mentre un altro maneggiava con cautela una piccola sfera posta su un lungo palo di legno e unita al terreno con un filo metallico, avvicinandola e allontanandola di pochi centimetri alla volta. Un disegno posto su una tavola mostrava la sezione interna dell’apparecchiatura, altrimenti invisibile.
Un capannello di curiosi si era formato intorno alle transenne che delimitavano la zona e ognuno commentava a modo suo quello che stava succedendo.
Il terzetto formato da Leandro, Anita e Miguel passò vicino al gruppo senza fermarsi, quando un violento rumore e un lampo accecante li bloccò.
«Cosa è successo?» chiese Anita.
«Da quella sfera è partito un fulmine che ha attraversato l’aria fino alla sfera più piccola» rispose Leandro, che non aveva staccato per un attimo gli occhi dall’esperimento.
«Un fulmine? Ma se non c’è una nuvola in cielo!»
«Eppure è stato proprio così, glielo assicuro!» si intromise un uomo che aveva assistito alla scena.
«Cosa mai può essere? Non ho mai visto niente del genere!»
«Non so… magia?»
«Deve trattarsi di quella cosa di cui stanno cominciando a parlare, anche se nessuno ha ancora capito bene cosa sia, elettro-qualcosa» rifletté Miguel.
I protagonisti dello strano esperimento, intanto, stavano commentando l’accaduto, spiegandone il funzionamento agli spettatori interessati.
«Il solito spettacolo da circo» commentò Leandro.
«Comunque è impressionante” disse Anita.
«Appunto, quello è lo scopo: impressionare»
«Ma non pensi che un domani se ne possa trarre qualche applicazione?» insistette la donna.
Leando studiò un istante l’apparecchiatura. «Non credo» rispose «tutto quell’aggeggio ha generato un fulmine lungo un paio di metri: quanto dovrebbe essere grande una macchina da utilizzare in guerra? Inoltre» disse, indicando l’uonmo sudato che aveva pedalato fino a quel momento «ci vorrebbero più ciclisti che soldati!»
E ridendo rumorosamente si avviò verso la Boca.
Gli altri due lo seguirono senza parlare.