Dalle nove di questa mattina sono seduto al bar del mio quartiere. Sono trascorse già due ore, ma ho notato che il locale è poco frequentato: qualche vecchietto legge il giornale e un paio di coppie fanno colazione con il caffè e il cornetto. Forse il bar è così vuoto perché a quest’ora la gente lavora. Non come me, che, a spasso da due anni, mi rifugio nei bar per ubriacarmi. Ho già bevuto una bottiglia di birra e, non contento, ne sto aprendo un’altra. Il cameriere, quando esce a servire, mi lancia occhiate di disapprovazione, che ignoro. Mentre ingurgito un bicchiere dopo l’altro, in maniera compulsiva, vedo avvicinarsi mia moglie, con il carrello e i nostri due bambini. Quando mi è vicina, urla:
“Siamo alle solite, sempre a bere. Non sei che uno stronzo, vieni a casa”.
Tutti mi guardano allibiti ma anche un po’ disgustati, mentre il cameriere si rivolge indispettito a mia moglie:
“Signora, in questo locale, non sono ammessi schiamazzi. Se volete litigare, andate altrove”.
Mi alzo a fatica e barcollando seguo Pina a casa, come un cane bastonato. Quando arriviamo nel nostro piccolo appartamento, lei riprende a urlare:
“Devi chiudere con l’alcol. Ti sei distrutto e hai rovinato la mia vita”.
Io provo a giustificarmi. “Ho bevuto solo due bicchierini”, ma lei insiste ricordandomi che ho scolato due bottiglie di birra e puzzo d’alcol da far schifo“.
I bambini iniziano a piangere, lei va in camera da letto e alla rinfusa prepara le valige, poi dice:
“Vado a stare un po’ da mia madre. Tu cerca di rinsavire, perché altrimenti non mi vedi più”.
Rimasto solo sprofondo sul divano e mi stringo la testa tra le mani, quasi a voler rivivere il ricordo di come è cominciata questa mia discesa agli inferi con l’alcol.
Iniziai a bere a vent’anni. La bottiglia era una piacevole compagna di viaggio: bevevo con gli amici, durante il fine settimana. L’alcol mi aiutava a vincere la timidezza e a risultare più brillante, in società e con le donne, il mio fisico reggeva bene. A quei tempi dominavo ancora la bottiglia. Con gli anni passai a bere occasionalmente, perché fui preso dal lavoro. Mio padre aveva voglia di ritirarsi in campagna con la mamma e, dal momento che ero figlio unico, mi cedette la gestione del forno. Vendevo pane, dolci e vari generi alimentari. E avevo anche l’angolo bar. Era un’attività che mi dava soddisfazione e mi faceva guadagnare molto, tanto che potetti prendere una casa in un quartiere elegante del paese. All’epoca ero ancora un bevitore occasionale. Mi mancava solo una moglie, e così cominciai a guardarmi intorno. Mi piaceva una cliente assidua del forno. Non era molto alta, era magra e aveva capelli ricci e biondi e gli occhi verde acqua. Veniva tutte le mattine a prendere il caffè e a fare un po’ di spesa. Fu inevitabile che entrammo in confidenza. Quando la vedevo mi brillavano gli occhi, e anche se il negozio era pieno, la salutavo chiamandola per nome:
“Ciao Pina”.
“Ciao Mimmo”, diceva lei e sorrideva.
Le facevo l’occhiolino e tanti complimenti sulla sua persona:
“Quanto sei bella oggi! Che bel vestito! Stai bene anche con i capelli. Sei stata dal parrucchiere?!”
Lei ricambiava il mio corteggiamento, civettando con me, in una maniera che la rendeva incantevole. Mi diceva:
“Anche te, stai bene. Sei sempre più bono”, e mentre mi strizzava l’occhio io arrossivo e scoppiavo a ridere.
Quando non c’era gente, dopo il caffè, uscivamo sulla veranda, e fumavamo una sigaretta insieme.
Una sera trovai il coraggio.
“Sono in orario di chiusura. Ci verresti a mangiare una pizza con me?”.
Pina accettò felice.
Così attraversammo a braccetto le strade quasi vuote fino alla pizzeria più frequentata del paese. Ordinammo e bevemmo birra, ma a quei tempi non ero ancora dipendente dall’alcol. Tra un boccone e l’altro parlammo di noi. Lei mi disse di essere figlia unica e che viveva ancora con i genitori. Il padre lavorava come meccanico mentre la madre era casalinga. Lei lavorava in una ditta di pulizie tutti i pomeriggi.
“Vengo da te a fare la spesa, prima di attaccare il lavoro” disse, tanto per essere precisa.
Annuii e poi parlai di me. Anche io ero figlio unico e i miei genitori si erano ritirati in campagna, lasciandomi la gestione del forno che mi faceva guadagnare bene, tanto che mi ero potuto permettere una casa tutta nuova. Lei sgranò gli occhi.
“Mi manca solo una moglie”, aggiunsi.
Pina rise. L’accompagnai a casa e mi comportai da vero gentiluomo, proprio come avevo visto fare nei film. Le aprii la portiera della mia macchina e l’aiutai a scendere facendole il baciamano. Ci ripromettemmo di uscire ancora insieme. Difatti nei giorni seguenti Pina tornò al forno e quando arrivò la domenica, dal momento che era già primavera inoltrata, la invitai a fare un pic nic in un parco vicino al paese. Lei accettò entusiasta e trascorremmo insieme una bellissima domenica. Da quel giorno tutti i fine settimana uscivamo insieme soprattutto per mercatini. Spesso andavamo a quello che si trovava nella strada principale del paese. Qui c’erano una miriade di bancarelle che esponevano la propria merce: biancheria intima, scarpe, sciarpe di seta colorate, cosmetici e molto altro ancora. Ma a Pina piacevano molto gli oggetti da restaurare, i vestiti usati di mille colori che sceglieva con cura chiedendo, però, sempre il mio parere. Tutto era molto folkloristico e pittoresco e a me piaceva molto accompagnarla in questi luoghi. Piano piano venne l’estate. Una sera di luglio le proposi di trascorrere le vacanze insieme in un campeggio a Vieste. Lei accettò con tanto entusiasmo, mi abbracciò e mi schioccò due baci sulle guance. Così il primo agosto partimmo per raggiungere il Gargano. Appena arrivati a destinazione montammo la tenda un po’ maldestramente, poi cenammo al ristorante del campeggio, aperto anche di sera. Quando tornammo alla tenda ci addormentammo di sasso, perché eravamo molto stanchi a causa del viaggio. Nei giorni seguenti ci godemmo il sole, il mare splendido e le giornate all’aperto. Ero felice, allegro e lo dimostravo tutti i giorni a Pina. Ora prendendola in braccio, quando meno se lo aspettava, per lanciarla in acqua, mentre lei lanciava gridolini di gioia ma anche di disagio per i brividi di freddo. Ora per portarla in barca, mentre cantavo:
“So u padone ru mareeee,eee”.
Ora per andare a ballare.
Anche lei era allegra. Gli occhi le brillavano e rideva spesso, anche senza un motivo particolare. Una sera le proposi di fare un falò sulla spiaggia e di attrezzarsi per una grigliata. Accettò entusiasta e facemmo anche il bagno di notte. Mentre l’asciugavo con un grosso telo, le carezzai il seno, la schiena, le spalle. Lei si adagiò sulla sabbia e mi attirò a sé. E facemmo l’amore in riva al mare.
“Sono innamorato di te, vuoi sposarmi?”
“Si, è da tempo che desideravo che me lo chiedessi”, e mi abbracciò.
Nel giro di pochi mesi ci sposammo nel Duomo del paese. La cerimonia si svolse nel tardo pomeriggio. Pina era bellissima nel suo abito di raso color crema con un’acconciatura di margherite fra i capelli, io indossavo uno smoking che mi faceva sembrare uno sposo perfetto. La cerimonia fu intima. C’erano i rispettivi genitori, qualche parente e colleghi di lavoro che festeggiarono con noi al rinfresco in un locale alla moda che io e Pina avevamo scelto con cura. Il giorno dopo partimmo per Amsterdam. La città ci entusiasmò per le sue bellezze artistiche, l’elaborato sistema di canali e le case strette con facciata a capanna. Ci spostavamo da un punto all’altro della città con la bicicletta e questo ci divertì molto. Quando rientrammo in paese, andammo a vivere nella mia casa. Eravamo così innamorati che mettemmo subito al mondo un figlio, Lorenzo. E dopo tre anni nacque Jacopo. Ero appagato, ma presto cominciarono i guai. Il forno non rendeva più, e con il tempo gli affari andavano sempre peggio. Fin quando dovetti dichiarare fallimento. Andammo ad abitare in una casa più modesta, e iniziammo a vivere solo con lo stipendio di Pina. Per me fu un dolore immenso. E invece di cercarmi un altro lavoro, andavo nei bar, nelle bische e nelle sale gioco conoscendo loschi figuri che divennero ben presto compagni di sbronze. Pina si arrabbiava, ma non le davo ascolto. Fu in questo periodo che ripresi a bere, come facevo a vent’anni. Bevevo birra, vino e superalcolici per annebbiare il mio cervello, e non pensare ai problemi. Un bicchiere dopo l’altro e presto mi resi conto di essere un alcolista, perché quando non bevevo avevo tremori in tutto il corpo e dei veri e propri attacchi di panico. Avevo bisogno di due o tre bicchieri per rimettermi in sesto. E andavo avanti così per l’intera giornata. Per vivere avevo bisogno della stampella dell’alcol, perché così anestetizzavo il dolore per il mio fallimento sul lavoro. Quando rientravo la sera a casa mia moglie portava i figli dalla mamma per non farli assistere a continue liti e scenate. Pina urlava:
“Smetti di bere, cercati un altro lavoro. Hai distrutto la nostra famiglia”.
“Che ne sai tu di me, brutta stronza. Non mi capisci”.
E così dicendo sbattevo porte, davo i calci ai mobili, e lanciavo in aria le sedie. Poi mi placavo bevendo l’ultimo goccetto, prima di andare a dormire, mentre Pina piangeva disperata. Interrompe il flusso dei miei ricordi il suono del telefono. E’ Pina.
“Resto a casa dei miei, con i bambini.” mi dice “Cerca di smettere di bere, trovati un altro lavoro, perché non voglio più mantenere te e il tuo vizio. Altrimenti non mi vedi più e non ti faccio vedere neanche i tuoi figli. O smetti, o divorziamo”.
E chiude la comunicazione senza neanche darmi il tempo di replicare. Queste parole di Pina per me sono una doccia fredda. Vado in bagno e mi guardo allo specchio. Il mio viso è stravolto, sono pallido e ho gli occhi molto gonfi. Mi sputo in faccia, non ho più alcuna stima nei miei confronti. Inizio a girare per casa come un leone in gabbia, e mi scompiglio i capelli con rabbia, penso a quello che posso fare e mi viene un’idea. Il giorno dopo mi sbarbo e mi vesto con più cura, per andare a trovare il parroco di Santa Maria che è anche un mio amico ed è il prete che ha celebrato il mio matrimonio. Quando mi vede mi viene incontro e mi da una stretta di mano calorosa, mi dice:
“Vecchio amico mio, come stai? E’ tanto tempo che non ci vediamo. Qual buon vento ti porta qui?”.
Gli racconto le mie vicissitudini.
“Mi dispiace tanto. Ma tu hai bisogno di aiuto per uscire da questa forte dipendenza che hai dall’alcol. Perché non vai in un Centro di recupero? Uno è proprio qui vicino, ti lascio il numero di telefono. Pensaci”.
“Lo farò”.
Poi mi saluta dandomi una pacca sulla spalla, “In bocca al lupo, figliolo”.
Quando arrivo a casa mi metto subito in contatto con questo centro per prendere un appuntamento. L’operatore lo fissa addirittura per il giorno dopo. La mattina seguente raggiungo la struttura che è immersa nel verde di un bellissimo parco, curato e molto attrezzato che mi trasmette calma e serenità. Il dottore mi attende alla porta e mi fa strada. Dopo aver attraversato un lungo corridoio entriamo in una grande stanza dove sono sedute in circolo molte persone. Aspettano me per iniziare a parlare della propria esperienza con l’alcol. C’è chi dice che il bere è un rifugio per nascondere i propri problemi, chi beve per solitudine, chi dice che l’alcol è una stampella, che è un’anestetizzante. Ma in fondo, per tutti, è una malattia. Tutti i presenti parlano a lungo della propria vita. Ci sono uomini e donne in carriera, ma anche studenti e scrittori. Non pensavo che la dipendenza da alcol fosse così diffusa anche in questi ambienti. Quando parlo della mia esperienza comincio a guardarmi dentro e a riconoscere che posso chiedere aiuto. Frequentando le altre sedute, non mi sento più solo e inizio ad avere fiducia in me e negli altri. Seguo il programma che offre questo centro e inizio a non bere per una settimana, poi un’altra e un’altra ancora. E sono arrivato a un anno di sobrietà. In questo periodo ho cercato anche un altro lavoro, e l’ho trovato in un altro forno del paese, questa volta come dipendente. E’ preferibile, ho meno responsabilità e sono soddisfatto di me. Poi un giorno nel negozio entra Pina. Mi guarda stupita.
“E tu, che ci fai qui?”.
“Come vedi, lavoro”.
Chiedo una pausa,la porto fuori e la guardo dritto negli occhi:
“Pina ho smesso di bere. E’ più di un anno che non tocco un goccio di alcol”.
Lei imbarazzata e stupita, non vuole crederci.
“E’ così. Ho chiesto aiuto a un Centro di recupero. Ma tu mi manchi come mi mancano i nostri figli”.
“Anche tu mi manchi”.
“Ci riproviamo?”.
“Direi di si” e mi da un bacio sulla guancia sempre con lo schiocco. Alla sua maniera.
Adesso la mia vita è cambiata. Lavoro tutto il giorno ma la sera mi siedo al tavolino con mia moglie, parlo con i miei figli che ormai sono cresciuti e la domenica, con loro, vado anche a giocare a calcio. La mattina mi sveglio riposato e non vomito più a tutte le ore. Inizio la giornata con un sorriso perché finalmente ce l’ho fatta e mi sento un uomo vero, realizzato e sono amato dalla mia famiglia.