Tutti conoscono Pinocchio.

Alcuni lo hanno letto, molti hanno visto la versione di Walt Disney (che dello spirito e della trama di Collodi riprende davvero poco), quasi tutti, in Italia, almeno fino a qualche generazione fa, lo associano allo sceneggiato di Luigi Comencini del 1972, forse la trasposizione più riuscita, pur con tutte le sue libertà di adattamento. Pochi (ma molto colti) conoscono la versione teatrale di Carmelo Bene.

Altri, particolarmente sfortunati, non riescono ancora a dimenticare il film di Benigni del 2002.

Il cinema italiano oggi poggia sulle spalle di pochi autori di grande livello e tra essi c’è senza dubbio Matteo Garrone.

C’era grande attesa per il suo Pinocchio: ci si attendeva (anche stando alle interviste rilasciate negli ultimi tempi dagli autori e dal cast) un’opera attenta filologicamente, visivamente eccezionale, reinnestata nel contesto sociale e politico in cui era nata, e che, finalmente, non avrebbe disdegnato i passaggi più cupi e grotteschi dell’originale, evitando una buona volta il malinteso che Pinocchio sia una fiaba per bambini piccoli, un Toy Story ante litteram rassicurante e divertente.

Pinocchio è ritmo, parola, sentimentalismo, frasi a effetto, parlata toscana, moralismo, scambi di battute folgoranti, ironia: un equilibrio di fattori che dà vita a un’opera che non sente il peso degli anni.

Incredibilmente, nel film di Garrone non c’è niente di tutto ciò. La fotografia desaturata – in contrasto col rosso del vestito di Pinocchio – e l’encomiabile lavoro dei truccatori sono le uniche cose degne di nota di un’opera che non trova mai il proprio senso. In certi istanti sembra di vedere delle illustrazioni antiche prendere vita: non c’è dubbio che Garrone abbia lavorato tantissimo sull’immagine, sulla composizione, su ogni cosa che il cinema può aggiungere per rendersi memorabile e giustificarsi come adattamento di un’opera che non ha bisogno di trasposizioni. Non c’era dubbio che avrebbe dato un’identità cinematografica ben definita al suo Pinocchio, e così è stato.

Nel fare ciò, si è dimenticato però di dare una voce al suo burattino.

Non c’è ritmo nella narrazione, ci sono scelte di sceneggiatura che lasciano perplessi – si veda su tutti l’episodio in cui Geppetto (Roberto Benigni) si vende la giacca per comprare l’abbecedario per Pinocchio. Nel libro è un capolavoro di poche righe, un’ellissi narrativa che consente di far capire subito il legame fortissimo tra Pinocchio e Geppetto. Garrone lo trasforma in uno sketch comico – poco riuscito – al servizio di un Benigni fin troppo ingombrante, che ingentilisce la figura di Geppetto e lo rende un personaggio senza mordente – del “Polendina” permaloso di Collodi non resta niente.

Alcuni episodi sono stati tralasciati (peccato), altre cose sono state create per l’occasione (o riprese da Comencini): nel cambio, si è persa la centralità di Pinocchio e la vitalità dell’opera.

Pinocchio non ha bisogno di aggiunte spurie, e non è tanto la trama, quanto il ritmo e i dialoghi, a renderlo memorabile (persino Carmelo Bene scelse saggiamente di costruire il suo Pinocchio senza alterarne il testo).

Il confronto più immediato è con il Pinocchio di Comencini, che pure si prende molte libertà, su tutte quella di avere un Pinocchio “bambino vero” per gran parte della storia – probabilmente più per ragioni tecniche che artistiche.

Nonostante le modifiche, infatti, lo spirito del Pinocchio di Collodi pervade tutto lo sceneggiato: dalla musica (indimenticabile), alla verve del piccolo Andrea Balestri (il confronto con Federico Ielapi è impietoso), ai dialoghi che mantengono il toscano e l’irriverenza e la freschezza dell’originale, anche quando se ne discostano. Persino il burattino di legno, che a stento muove gli occhi, è semplicemente perfetto nella sua semplicità.

Lo stile iperrealista di Garrone si adatta bene alla trasposizione grafica e visiva, ridefinendo l’immaginario di Pinocchio come nessuno era riuscito a fare, ma molto meno a quella drammatica. L’opera di Collodi è imperfetta dal punto di vista narrativo, incoerente, fantastica, allegorica, ma trasuda una vitalità completamente assente dall’adattamento di Garrone, che preferisce indugiare sui dettagli della povertà di Geppetto, assembla un Paese dei Balocchi di una tristezza senza eguali e – peccato per me imperdonabile – abbandona il ritmo e la violenza verbale del toscano e dei dialoghi originali, rinunciando anche a quasi tutte le frasi più celebri e memorabili del romanzo.

Ne esce un’opera noiosa e dimenticabile, che lascerà indifferenti i bambini e farà rimpiangere agli adulti la versione di Comencini. Un vero peccato.