«Ehi, ma tu…».
Lui mi guarda e scoppia in una risata.
«Che c’è? Non sei contento di vedermi? Eppure giocavamo sempre a carte insieme!»
Ho un momento di smarrimento.
«Sì, certo» balbetto «ma io credevo che… che tu stessi…».
«In galera? Beh, un po’ ci sono stato, ma come vedi…» e giù un’altra gran risata.
Intanto altri frequentatori del nostro bar di periferia hanno notato la scena e riconosciuto Gian. Adesso intorno a noi c’è un capannello di persone che sta ascoltando.
«Beh, visto che hai il pubblico ora devi raccontarci cosa è successo».
«Ok, ok, ma prima pagatemi da bere…».
È il minimo, e in men che non si dica di fronte a Gian ci sono due bottiglie, una di prosecco e una di barbera, non si sa mai.
Lui le solleva, guarda l’etichetta e scuote la testa.
«Sempre spilorci, eh?» dice, ma si vede che non sta nella pelle dal raccontare la sua storia. E comunque non è che da Luigi trovi del Cristal 2008.
«Partiamo dall’inizio?» chiede.
«Beh» faccio io, un po’ per non perdere la parola e un po’ perché della storia ne ho due coglioni che… «l’inizio era su tutti i giornali: tu l’hai ammazzata, quella Diljana. L’hai ammesso tu stesso».
«Già, già» fa lui, bevendo un lungo sorso di rosso «quella troia. Intendiamoci, non è che non mi sia dispiaciuto, dopo, ma sul momento… Mi voleva mollare, lo sapete, no?».
«Certo che lo sappiamo: ti voleva mollare e tu l’hai sgozzata come una gallina. Poi hai confessato…».
«Eccerto! Ho dei sentimenti, io!» protesta.
«E volevano darti l’ergastolo…».
«Ma non hai avuto una riduzione?» interviene l’Osvaldo, che si deve essere svegliato in questo momento.
«Certo» risponde Gian «ho avuto trent’anni perché ho chiesto il rito abbreviato».
Lo guardiamo tutti: trent’anni sono trent’anni: quantro tempo è passato?
«Lo so cosa volete chiedermi, asini che non leggete altri giornali che la Gazzetta!».
E qui faccio un inciso perché un po’ ci siamo sentiti offesi: noi la Gazzetta la leggiamo – cioè, leggiamo quella del bar di Luigi – ma solo quando c’è il campionato: d’estate che ce ne frega?
Comunque lui va avanti:
«In appello ho trovato dei giudici eccezionali, anche perché l’aria era cambiata: mi hanno dimezzato la pena».
«E come mai?».
Altra risata e altro bicchiere di vino.
«Ero in un momento di temporanea alterazione mentale».
«E che vuol dire?» chiedo, interpretando il pensiero di tutti.
«Che non ero in me, che ero incazzato e avevo perso la testa. Ed è vero: se fossi stato calmo mica l’avrei ammazzata, quella troia che mi voleva mollare come un pesce lesso: l’avrei riempita di botte e mollata in mezzo ad una strada, che è il posto in cui doveva stare».
«Per dire la verità mi pareva che lavorasse in un call center» obietta sempre Osvaldo, che non capisce mai quando deve stare zitto.
Gian lo fulmina con uno sguardo, ma per fortuna tiene le mani a posto. D’altra parte l’Osvaldo è una spanna più alto di lui e non è che Gian sia mai stato un leone, con gli uomini.
«Era una troia e basta, dico! Comunque mi danno quindici anni e voi vi chiederete come mai sono già qui…».
In effetti è proprio quello che ci chiediamo dall’inizio.
«È semplice» spiega «una volta che cominciano a fioccare le riduzioni di pena sei a posto:attenuanti generiche, una piccola amnistia, buona condotta, ed ecco che sono fuori sulla parola per il reinserimento in società. Ho solo l’obbligo del rientro notturno» guarda l’orologio «ma non c’è fretta, sono comprensivi, anche perché non durerà molto».
Sgraniamo gli occhi.
«Eccerto» spiega ancora «mica sono scemo: quella troia di Diljana era albanese, non c’è voluto molto perché un sottosegretario prendesse a cuore la mia causa e sapete come è, si trova sempre un giudice comprensivo…».
Sono tutti intorno a Gian: grandi battute sulle spalle, sorrisi, strette di mano. Per la verità io lo guardo un po’ allucinato, ho qualcosa che mi va su e giù per lo stomaco, forse è il vino.
«Ma non hai nessun rimorso?» chiede ancora il solito Osvaldo «Se dovessi tornare indietro rifaresti la stessa cosa?».
Gian si volta un attimo e lo guarda:
«No» risponde serio «se potessi tornare indietro invece di una troia albanese me ne sarei presa una negra».
«E perché?».
«Perché se avessi ammazzato una negra quello del governo oltre a farmi tornare libero mi avrebbe dato pure una medaglia!» esclama, e tutti ridono come matti alla battuta, mentre Osvaldo, avvilito, ritorna a giocare a flipper.
E io? Non so, qualcosa deve avermi fatto male, perché il senso di acido che mi sale dallo stomaco non mi molla, e riesco appena ad arrivare in bagno, e vomito, vomito, vomito…