Il lunedì mattina, recarsi al lavoro, è sempre un dramma.
Il traffico è caotico perché uno dei più grandi parcheggi a pagamento della mia città è occupato dal mercato settimanale, quindi, la città è intasata da auto che vagano alla ricerca disperata di un posto.
Quel lunedì pioveva e questo complicava ulteriormente le cose.
Chi di solito usa un mezzo a due ruote, va al lavoro con l’auto e le code sono lunghissime, piene di gente insofferente e nervosa.
Perciò, quel lunedì preferii prendere l’autobus e, per fortuna, nonostante la ressa, riuscii a sedermi al centro del mezzo.
Mentre si procedeva in coda a rilento, osservai con curiosità i miei compagni di viaggio.
Una signora di mezza età, con indosso un giaccone color lavanda, berretto di lana blu e sciarpa in tinta, stava leggendo il giornale seduta affianco al finestrino.
Alle sue spalle, un’altra, con un giaccone nero e berretto color panna, allungando il collo, con gli occhiali sulla punta del naso, stava leggendo (gratis) lo stesso giornale.
La scenetta mi divertì e pensai:
«Questa è la conferma di quanto dicono di noi liguri sull’avarizia …».
All’improvviso, dal fondo del mezzo, si alzò una voce femminile, con un forte accento napoletano, che salutò un’amica che stava davanti.
L’altra le rispose urlando a sua volta, e continuarono a fare conversazione, scambiandosi gli ultimi pettegolezzi, come se sull’autobus ci fossero state soltanto loro.
In mezzo a tutto questo il frastuono, una ragazza stava blaterando animatamente al cellulare, agitando le mani con il viso arrossato.
Ebbi modo di capire, che stava litigando con la madre.
L’autobus continuava a marciare a lento, faceva pausa a ogni fermata scaricando e caricando gente di ogni età ed etnia.
Un gruppetto di ragazze sudamericane stava parlando animatamente in spagnolo; si scambiavano numeri di telefono e raccontavano i loro problemi, spettegolando alle spalle delle loro datrici di lavoro.
Un extra comunitario si fece largo con una grossa borsa di plastica piena di cianfrusaglie mentre due studenti, che portavano in spalla pesanti zaini pieni di libri, stavano fissando il vuoto, muniti di auricolari, e si stavano sparando nelle orecchie musica a tutto volume.
Una giovane coppia di cinesi parlava sottovoce suscitando la curiosità di un bambino.
A un tratto, salì sull’autobus un signore anziano, con un bastone ed io gli cedetti il posto.
Mi ringraziò calorosamente e iniziò a parlare elencando i suoi problemi:
«Molto gentile signora», disse con un marcato accento piemontese, sedendosi pesantemente ed emettendo un sospiro, «sa, sono pieno di acciacchi, mi fa male un piede, ho un’anca che fa i capricci; della sciatica è meglio non parlare, per il diabete faccio l’insulina, ho anche un’ernia, e guardi le mani …», continuò mostrandomele.
Erano gonfie e tumefatte.
Piccola pausa poi aggiunse:
«Ho il tunnel carpale, dovrei operarmi», proseguì mentre io lo ascoltavo fingendo un interesse che in realtà non provavo e avrei preferito essere lasciata in pace per fare mente locale sui problemi di lavoro che avrei dovuto affrontare arrivata in ufficio.
Normalmente, il mattino, sono poco socievole, non ho voglia di chiacchierare e il mio umore non è dei migliori.
Per questo motivo, cercai di non incoraggiare il mio interlocutore, guardai fuori dal finestrino e mi spostai leggermente in avanti.
Questo tizio era di tutt’altra idea e non aveva nessuna intenzione di mollare:
«Ho dovuto farmi estrarre tutti i denti per colpa della piorrea, ma non sopporto le protesi e sono senza denti …», continuò imperterrito elencando i suoi problemi in ogni singolo dettaglio.
Lo ascoltavo perché non potevo farne a meno, ero compressa in mezzo agli altri passeggeri e facevo fatica a mantenere l’equilibrio ma ogni tanto commentavo:
«Certo che lei non si fa mancare nulla…», ridendo per sdrammatizzare e per educazione.
Il tizio rimase qualche minuto in silenzio ed io, pensando che la conversazione fosse finita, mi rilassai focalizzando altrove la mia attenzione.
All’improvviso, mi sentii chiedere:
«Quanti anni mi da?»
«Bella domanda», pensai e lo osservai meglio.
Aveva un addome prominente, era senza denti, pochi capelli bianchi …
Per non rischiare di essere scortese, buttai lì, convinta di fargli un complimento:
«Non saprei, ne ha una settantina?»
Pausa. Scrollò la testa, mi guardò sottecchi, poi, rispose piccato:
«Di solito me ne danno meno …».
Rimasi sconcertata, in realtà avevo stimato che ne avesse almeno ottanta ma compresi di aver fatto una gaffe e titubante gli chiesi:
«Ho sbagliato?»
«Mi spiace, non sono molto brava a indovinare l’età delle persone … scusi, quanti ne ha?».
Lui rispose prontamente:
«Sessantanove!»
Dopo qualche secondo di silenzio, sorrisi:
«Beh, non ho sbagliato di molto, dopotutto, lei in realtà ha soltanto qualche problema di salute, risolti quelli … si vede che è un tipo giovanile!».
Questa risposta piacque al mio compagno di viaggio, che mi sorrise compiaciuto e si accomodò sul sedile guardando fuori.
Il colloquio pareva terminato e continuai a osservare le persone multietniche che mi circondavano pensando con una punta di nostalgia:
«Quanti liguri doc ci saranno sull’autobus?».
«Oramai qui ci sono rappresentati tutti i continenti della Terra».
Ero immersa in queste considerazioni, quando fui portata alla realtà da un’improvvisa e brusca frenata, e dalla voce dell’autista che stava inveendo contro il conducente di un’auto che gli aveva inaspettatamente tagliato la strada:
«Sei un deficiente …», esclamò furioso.
La frenata causò uno scompiglio generale, qualcuno rischiò di cadere, me compresa e l’immagine che mi balenò in quel momento fu che l’autobus, simile a una grande scatola di filetti di acciughe ben allineate, le avesse proiettate in avanti, per poi farle tornare compatte e incolumi (per fortuna) al loro posto.
Non so neppure io come mi possano venire in mente queste immagini in momenti come questi!
Credo siano provocate dallo stress della disperazione!
Si levò un coro di proteste poi, sovrastando il mormorio generale, una voce urlò con uno spiccato accento ligure:
«Che belin ti fe’, ti veu mandone tutti a gambe all’aia?», rivolto all’autista che tradotto significa:
«Che caxxo fai, vuoi mandarci tutti a gambe all’aria?».
Tutti risero rumorosamente, l’atmosfera si rilassò ed io mi sentii sollevata:
«Ci voleva proprio una bella imprecazione in dialetto ligure per sentirsi a casa», pensai divertita.
Il viaggio proseguì tra sussulti e frenate, io ero quasi arrivata a destinazione, mi stavo preparando a scendere, quando salì sul bus il controllore e le porte furono prontamente bloccate.
Il tizio scorse velocemente biglietti e abbonamenti ma, arrivato in fondo all’autobus, ecco che le cose si complicarono.
Una signora di mezza età, vestita con eleganza, con un cappello posato di lato sul capo in modo sbarazzino, le mani guarnite di anelli, era senza biglietto e iniziò una discussione tra i due.
Lui: «Devo farle la multa».
Lei: «Io il biglietto non lo faccio mai, cosa crede, qui mi conoscono tutti e nessuno mi ha mai detto niente», rispose impettita e offesa.
Lui: «Non so cosa dirle, Signora, lei non ha il biglietto ed io la devo multare».
Lei era visibilmente seccata e proseguirono la discussione per un po’.
Alla fine il controllore tagliò corto:
Lui: «Faccio solo il mio lavoro, dove scende signora?».
Lei: «Alla prossima», in tono altero.
Lui: «Perfetto, allora scendiamo insieme».
Scesi a mia volta e mi avviai verso il bar, dove vado di solito a fare colazione.
Seduta a un tavolo con un cornetto e una tazza di caffè davanti, riflettei su come stesse cambiando la mia città, provai nostalgia per cose liguri autentiche, consapevole del fatto che stessero rapidamente scomparendo per fondersi con abitudini, usi e costumi di popolazioni multietniche diverse.
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