E se quest’anno a carnevale – riflettevo tra me alcuni giorni fa – rinunciassimo a mascherarci, a travestirci, a bardarci allegramente per indossare invece, ancora una volta, gli abiti smessi della quotidianità, consunti dal tempo, sgualciti dall’ordinario contatto con la routine, in una monotona ripetitività di gesti e parole che comunque ci accompagnano durante tutto l’arco dei dodici mesi?
Se quest’anno ci astenessimo, per una volta, da questa bagarre di ostentata e variopinta spensieratezza, di compiaciuta finzione, di divertimento coercitivo che sotto sotto – questa è almeno la mia vaga sensazione – cela inconfessate e inconfessabili tristezze, camuffando i nostri dubbi e le nostre paure dietro spoglie di comicità e allegria artefatte?
Se quest’anno abbandonassimo ogni velleità di improvvisarci irresistibili e un po’ patetici clowns, reprimendo la nostra verve, alquanto costruita, di giullari impenitenti per vestire invece i panni di chi il vero carnevale, al di là di travestimenti e buffonerie, lo custodisce gelosamente dentro di sè?
In fondo, una maschera sul viso la indossiamo già tutti e quotidianamente; è una delle prime “conquiste” che facciamo nostre nascendo esseri umani e relazionandoci agli altri intessendo rapporti sociali fin troppo spesso improntati, purtroppo, a mimetizzare il nostro vero volto per promuovere, piuttosto, l’esteriorità, l’immagine, l’apparenza.
Che bisogno c’è, allora, di travestirsi e mascherarsi per assumere le sembianze di ciò che non siamo?
Dal punto di vista antropologico e della cultura cui apparteniamo, il carnevale segna la fine dell’inverno. È la festa della vita che si impone in modo esorcizzante nei confronti della stagione “morta” dove tutto, dalla natura ai sentimenti, alle passioni, alle emozioni, sembra addormentato in attesa della rinascita primaverile.
E non potrebbe essere, allora, questo desiderio carnascialesco di svago-ad-ogni-costo, questa smania di esibizionismo mascherato un ulteriore semplice escamotage a buon mercato cui più o meno inconsapevolmente ricorriamo per esorcizzare le nostre paure; la difficoltà, avvertita in modo sempre meno latente, di vivere degli autentici rapporti interpersonali; una pulsione insita nell’uomo di ogni tempo e nazione ad intrecciare relazioni sociali con i propri simili pur evitando di esporsi eccessivamente e occultando, quindi, il proprio vero volto dietro una maschera?
Nelle società tecnologiche, dove il carnevale sembra aver perso la sua dimensione “istituzionale” per riversarsi sul quotidiano, la maschera diventa allora un elemento metaforico: non un oggetto concreto bensì uno schermo ideale che riflette e non lascia passare i sentimenti, uno scudo autocostruito-costrittivo per nascondere solitudini interiori mai ammesse o riconosciute, per difendersi dal terrore di essere feriti, per proteggersi da un’atavica paura di mettersi in gioco, ponendo avanti le mani (la maschera!) per cautelarsi da ogni possibile delusione, dimentichi del fatto che solo mostrandoci per ciò che realmente siamo, offriamo agli altri, e a noi stessi, la possibilità di guardare oltre il travestimento di facciata e poter acquisire, una volta per sempre, il vero senso del carnevale “dentro” di noi: persone che hanno voglia di ridere, di amare, di abbracciare, di divertirsi – nel corpo e nello spirito – così come di sprofondare anche in dolcissime avvolgenti malinconie, se lo desideriamo, abbandonandoci a quel sollievo liberatorio del non dover più fingere, simulare, nascondere…
E allora, giù la maschera!
Buon carnevale a tutti, dentro e fuori di noi.