Capitolo tredicesimo

Caterina, dopo la morte dei suoi genitori sentiva che, dietro alle sue spalle, non c’era più nessuno.
Anche se aveva già quaranta anni nessuno l’avrebbe più chiamata: la mia bambina o “a piccin-na.
Era diventata grande ma triste anche perché, in quel periodo, Giuseppe cominciò a essere distante, indifferente o peggio insofferente.
Lei pensò di averlo caricato di troppi problemi, aveva sopravvalutato la sua forza.
Gli era successo invece la cosa più banale, lui che diceva di essere diverso dagli altri: si era innamorato di una giovane infermiera.
Era come impazzito e decise di andare via di casa.
Caterina non si oppose, ormai era diventato uno sconosciuto, non era più il ragazzo di cui si era innamorata: fu come un’altra morte.
Caterina andò via per qualche giorno per lasciargli la possibilità di portare via le sue cose.
La ospitò una cara amica, Pia, più vecchia di lei ma meravigliosa, vivace, piena di interessi.
Andarono nella sua casa al mare e Pia la rimbambiva di chiacchiere, le presentava nuovi amici, la portava nei luoghi a lei cari.
Non le dava tregua e Caterina non aveva tempo per pensare a quello che le stava succedendo.
Inevitabilmente ci fu poi il ritorno a casa, Caterina entrò, vide le chiavi di Giuseppe sul mobile dell’ingresso, rinchiuse la porta dietro di sé.
E ora? Si domandò.

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Senza Jaap, Wendy si gettò a capofitto nella sua nuova carriera musicale.
Imparò nuove canzoni, andò a lezione di inglese per migliorare la pronuncia, diventò sempre più amica di Jean Jacques.
Lui aveva una bella famiglia: la moglie Simone, donna intelligente e ospitale, gli stava vicina e organizzava la parte pratica della loro vita perché lui, da vero artista, non se la sarebbe cavata molto bene.
Avevano due figli, naturalmente musicisti: Yves che suonava il violoncello in una orchestra sinfonica e Paul il clarino in una banda jazz.
Si riunivano spesso nella casa che avevano in campagna, vicino a Compiègne a nord di Parigi.
Wendy era del gruppo anche perché Simone la trattava come una figlia, senza le smancerie che non sono proprie dei francesi, ma con naturalezza e lei si sentiva a suo agio.
La casa era enorme, tante camere per gli ospiti, una grande cucina
dove c’era sempre qualcuno che cucinava, mangiava, beveva, discuteva.
Ma per la maggior parte del tempo si stava fuori, o sul prato o sotto i tigli e lì si suonava o si cantava.
Un giorno di maggio, mentre Simone e Wendy raccoglievano mughetti nel prato, fiori che erano il simbolo dell’arrivo della bella stagione, sentirono il clacson di un pulmino che, strombazzando, si fermò davanti a casa.
Ne scesero un gruppo di uomini di varia età e colore. Jean Jacques corse incontro a loro, si abbracciarono e si salutarono festosamente.
Simone, mentre andavano verso di loro, spiegò a Wendy che erano amici di suo marito, un gruppo musicale, gli “Harlem’s Seven Boys” che arrivavano da New York e suonavano Dixieland.
Lui li presentò come fossero sul palco alla fine di un concerto: alla batteria Barry, al piano Joe, al banjo Wilson, al basso Alan, al trombone Louis, al clarino Max e alla tromba Nelson.
Erano arrivati da poco a Parigi per una lunga tournèe che prevedeva concerti anche in altre città francesi.
In quegli anni il Jazz era molto apprezzato. Da tempo non era più la musica dei “negri” e diventava sempre più sofisticato, a volte fin troppo, pensava Wendy.
Ma loro non sembravano appartenere a quel genere e lei avrebbe avuto modo di verificarlo.

Continua…