Il corpo è solo una crisalide, una pelliccia di materia organica che rinfrange luce e colore a discapito dell’anima. Il corpo è una materia statica, una carne ingombrante, muscoli lenti, pelle fragile. Il corpo è un limite, il lascito della nostra dipendenza materiale a monito che ogni cosa, in questo cerchio, ha un limite, un tempo finito, un orizzonte limitato dal quale è impossibile evadere veramente.
Ciò che cercava il Nero era una dimensione più elevata, una libera uscita da quel sasso rosa che lo teneva ancorato al buio del fondale. Era ossigeno, quello di cui aveva bisogno, e visioni fresche, pensieri nitidi che diventavano le matrici con le quali vengono stampate le banconote dei sogni, l’unica moneta vigente negli psicoregni nei quali era abituato a viaggiare.
Era passato un mese e ciò che vedeva fuori dalla finestra era solamente un cortile diverso, ugualmente silenzioso e movimentato, ugualmente distratto e clandestino.
Il crack sollevò una linea bianca di fumo sopra la sua testa andando a scomporsi in quell’oceano fluttuante grigio di sigaretta e marijuana.
Era passato un mese e quel centro sociale era la cosa migliore che fossero riusciti a trovare.
Era passato un mese e loro si ritrovavano esattamente al punto di partenza.
Il Nero cancellò ogni pensiero riscaldando la carta stagnola. Tutto era calmo, nel sottotetto di quell’oceano di fumo, mentre i raggi del sole tagliavano l’aria come se fossero fendenti e il domani non esisteva, il tempo era diventato un oggi di nuvole ed ombre da appiccicarsi addosso.
D’un tratto si domandò dove fosse finito Rio, poi cercò di ricordare l’ultima volta che erano stati insieme ma finì con il dimenticare anche quello.
La luce del crepuscolo gli tingeva il volto di un viola azzurro, della stessa tonalità che assume il cielo quando socchiude gli occhi, e per forza di cose finì con il pensare al sorriso di quella ragazza, intrappolato in quella vecchia polaroid scolorita che gli era rimasta in tasca, lasciando casa di Simona.
La guardò, mentre l’inverno lasciava tempo ad un’altra primavera ed anche il freddo, allontanato dal sole, trascinava via il ricordo dei due mesi passati insieme.
Magari un giorno l’avrebbe rivista o magari sarebbe stata lei, a trovarlo.
Avrebbe camminato tra la folla del mercoledì mattina, rincasando con lo sguardo basso e la testa tra le nuvole, come immaginava facesse tutte le volte.
Un grido l’avrebbe colta di sorpresa. Un grido stupido e banale, tuonato sopra le teste di tutti per passare indifferente fino a lei.
– Fermati! Bastardo! – avrebbe sentito.
– Si! Fossi scemo!? – avrebbe risposto la voce del Nero.
Probabilmente non lo avrebbe riconosciuto subito, forse avrebbe solo sollevato la testa.
– Fermati disgraziato bastardo!
Lui le sarebbe finito addosso appena voltato l’angolo, trovandosela di fronte come la visione di un sogno, un angelo disceso al centro di quel purgatorio di cemento armato.
– Nero!? – avrebbe domandato lei.
– Simona!? – avrebbe esclamato lui.
Lei non avrebbe avuto il tempo di parlare, forse neppure di sorprendersi, che un altro grido li avrebbe aggrediti alle spalle convincendoli a scappare “Vieni qui!”.
– Cazzo, vieni! – avrebbe detto lui, trascinandola per un braccio in quell’inseguimento.
– Cosa hai fatto!? – avrebbe esclamato lei, lasciandosi trascinare via.
– Non lo domandare – avrebbe risposto ridacchiando, – non ne vale la pena.
E forse non ne sarebbe valsa veramente la pena, di sapere, perché l’importante era quello che diceva sempre Rio quando parlava dei sogni. L’importante era seguire la strada migliore, quella delle maggiori soddisfazioni, del migliore piacere, degli stati emotivi che ci rendono sinceramente vivi, che rendono la vita degna di essere vissuta. “La strada più bella”, usando parole sue. La propria.
In fondo a nessuno dei due, durante quella corsa, sarebbe importato crescere: questo mondo non aveva le ali, non aveva futuro, era uno scarno presente destinato ad inseguirsi per sempre, come una trottola o un girotondo. Durante quell’inseguimento l’importante sarebbero state le loro mani, il loro sorriso e quello sfarfallio leggero, alla bocca dello stomaco, che gli avrebbe fatto capire quanto fosse importante vivere, quanto fosse stupido piegare la testa, rabbuiarsi, rinchiudersi in quelle gabbie che il mondo gli costruiva attorno. Correndo avrebbero capito di avere sbagliato tutto, di avere confuso tristezze e necessità in una corrida che non aveva scopo. Correndo avrebbero percorso la loro vita insieme, le loro infinite felicità, la serenità di una vita normale, lontana dalle tribolazioni della strada, dal freddo, dal crack. Correndo ci avrebbero creduto veramente e ci avrebbero creduto tanto.
Il loro inseguimento sarebbe finito da qualche parte quando, senza fiato, si sarebbero voltati ritrovandosi soli.
– Oramai non ci insegue più – avrebbe detto lui, riprendendo fiato.
– Cosa gli hai rubato!?– avrebbe esclamato lei.
– Niente – avrebbe ridacchiato lui, tenendosi la milza.
– Sul serio, cosa gli hai rubato?
– Niente, ti dico!
– Ci deve essere un motivo se quello era tanto incazzato!
– Ma io non ho rubato niente, stavolta, giuro, solo…– avrebbe tergiversato.
– Solo?
– Beh, non gli ho pagato un servizio.
– Che servizio?
Lui si sarebbe infilato una mano in tasca e ne avrebbe estratto la vecchia polaroid restaurata.
– È per te – avrebbe detto.– Un regalo.
Lei avrebbe guardato la foto, avrebbe sorriso e lo avrebbe abbracciato. Probabilmente avrebbe pianto, un pianto liberatorio che avrebbe pulito quello strato di ruggine e senso di colpa che si sentiva addosso.
– Credevo di averla persa – avrebbe detto,– grazie a Dio…
– Chi è?
Lei avrebbe guardato la foto, il rosa avrebbe lasciato posto ai colori di quell’estate torrida e al sorriso brillante di quella ragazza, e Simona gli avrebbe raccontato la storia della ragazza nella foto, magari sorridendo e guardando in alto, oppure piangendo con aria sconsolata.
Se fosse stata una storia triste lui avrebbe detto – Mi dispiace…
– Non importa – lo avrebbe zittito lei, – ora non ha più importanza…
Oppure avrebbe sorriso, esordendo con una frase del tipo:– Sai, ogni tanto penso che in fondo io non sia altro che una persona normale, una persona normale intrappolata in una vita anormale.
– Cosa vuoi dire?– Le avrebbe domandato lui.
Lei lo avrebbe guardato negli occhi e lui si sarebbe sentito come se si fosse risvegliato da un lungo sogno.
– Niente, sono solo felice – gli avrebbe detto,– felice di averti rincontrato.
Lui avrebbe guardato a terra, poi avrebbe sollevato gli occhi, immaginando un’intera vita da sogno, una vita pulita, ordinaria e regolare, così spudoratamente serena da dare il voltastomaco, così disgustosa da essere invidiabile. Un cane, un appartamento, un lavoro, figli. A quel punto si sarebbe domandato se quella normalità potesse essere una forma serena di felicità e se l’avrebbero raggiunta insieme. Poi si sarebbe convinto che l’unica risposta possibile era “sì”.
– Ti amo, sai?– avrebbe detto, quell’unica volta, prima di baciarla.
Probabilmente andrebbe così.
Probabilmente in due farebbero ciò che lui, da solo, non è mai riuscito a fare.
Probabilmente si sarebbero amati per sempre e avrebbero avuto un meritato lieto fine.
Probabilmente il vuoto se ne sarebbe andato e lui non avrebbe mai più fumato quella roba.
Probabilmente.