«Via! Via! Via!».

Sento il grido arrivare lungo il molo, come portato dal vento. Sono assopito, sfinito dal caldo e dall’odore pesante dell’angiporto, e per un attimo sogno che siano le fronde del karité a sussurrarlo alle mie orecchie mentre sto raccogliendo l’acqua nell’otre prima di passarlo a mia madre.
Ma è solo un attimo. Il ritmo è tambureggiante: Via!, Via! Via!
Apro gli occhi e mi guardo intorno, stordito. Di fianco a me vedo i miei compagni che hanno raccolto le loro cose e stanno correndo. Non capisco.
Ahmed mi sorpassa con il suo fagotto di stracci colorati, quasi mi travolge. Poi si ferma e torna indietro.
«Cosa cazzo fai?», mi urla. «Sbrigati!».
Posa la sua roba per terra e prende il mio telo per gli angoli e lo fa su senza complimenti. La roba sbatte violentemente, forse qualcosa si rompe.
«Ehi…!» faccio.
«Muoviti!». Mi prende per un braccio e mi strattona in piedi, raccoglie le sue cose e si rimette a correre. Lo seguo. Cento metri, duecento, trecento, in mezzo ai turisti che ci guardano stupiti. Si ferma. Mi fermo anche io, ho il cuore in gola.
«Cammina» mi dice.

Lo seguo lungo il molo, come un cagnolino. Ahmed non è della mia terra, ma è l’unico che mi abbia aiutato: mi ha trovato qualcosa da fare e un posto da dormire, una stanza insieme ad altre otto persone, ma all’asciutto e al caldo, e ci abbiamo messo di nascosto un fornelletto per scaldarci il cibo. E lui fa il cous cous. A me piace il cous cous.
«Di qui!» mi fa, tirandomi dietro un muro di pietre grezze.
Faccio come dice lui.
«Vedi?» mi indica tre uomini in divisa, lontani, che vengono avanti piano.
Accenno di sì.
«La Finanza. Se ti trovano che stai vendendo ti sequestrano tutto. E magari ti portano anche al commissariato per identificarti. Ce l’hai il permesso di soggiorno? No, figurati! Allora ti rispediscono a casa tua, no, in Libia, ancora peggio».
Lo guardo terrorizzato, sento gli occhi che mi si bagnano, rivedo antichi terrori. La guerra.
«Ehi, adesso non piangere!»

Ride, ha i denti bianchi, Ahmed, forti, non come i miei che si rompono se solo mastico qualcosa di duro.
«Se ne stanno andando, vedi? A loro non piace fare queste cose, ma sono costretti, quindi basta non farsi prendere e va tutto bene».
Raccoglie il suo sacco e fa per ritornare sul molo. Vede che non lo seguo e si volta.
«Cosa fai? Non vieni?».
Io sono indeciso, resto fermo come un palo.
Lui torna indietro e mi prende per mano.
«Dai, ritorniamo a vendere qualcosa, altrimenti cosa si mangia? Tu hai fame?».
Scuoto la testa, mi si è chiuso lo stomaco.
«Vedrai che ti tornerà, la fame», dice «quella ritorna sempre, stai tranquillo. Ma ti è caduta la lingua?».
A quelle parole mi riscuoto: erano le stesse che mi diceva mia madre quando restavo incantato a guardare i grossi camion dei bianchi che venivano a cacciare gli animali, nella riserva».
«No, no», rispondo con enfasi «è sempre qui».
E gliela mostro.
«Bravo!» ride.
Siamo arrivati dove eravamo prima. Non proprio, il mio posto è stato preso da un altro venditore e mi tocca mettermi in un angolo. Ahmed alza le spalle, come a dire: È la vita!. O forse: La prossima volta dovevi svegliarti prima.
Pazienza, non me la prendo, cerco di mettermi un po’ più distante da dove ha pisciato il cane, si sente ancora forte l’odore dell’urina.
Ahmed si è fermato vicino a me, hanno preso anche il suo posto.
Stende il telo, dispone in bell’ordine i suoi oggetti e si siede a gambe incrociate.
«Ahmed…» sussurro.
«Eh? Cosa vuoi?».
«Sarà sempre così? La vita, voglio dire».
«No, no», mi assicura, «magari domani sarà peggio!» e ride.
«Ma allora la terra promessa… dov’è?».
Per qualche secondo non risponde, vedo che guarda lontano, il mare, i mercantili illuminati ormeggiati più lontano, la sera che scende.
«Germania, forse… O America, non so».
«Come faccio ad arrivarci?», chiedo.
Questa volta lui non risponde proprio. Un turista biondo si avvicina, la macchina fotografica al collo. La moglie guarda le mie cose, ma in realtà sta guardando me. Dice qualcosa al marito, poi prende in mano una collana di perline bianche, chiede il prezzo, la compra senza mercanteggiare.
«Cosa ha detto?», chiedo ad Ahmed che parla tutte le lingue, o almeno, così dice.
«Che bella collana!» risponde.
Lo guardo scettico, lui alza le spalle.
«Povero bambino», ha detto. Va bene?».
Un velo di tristezza cala sui suoi occhi. A me viene da piangere, ma mi trattengo: forse quella signora alta che mi guarda…