Chi di noi non ha un Natale da ricordare? Uno di quei Natali che ti si imprime nella memoria e, per un motivo speciale che solo tu puoi capire, non ne uscirà mai più e sarà la tara di tutti i Natali successivi, a volte anche di quelli passati, con una fantasmagorica circonlocuzione che solo la mente umana è capace di fare, scavando nella memoria che è la colonna vertebrale di tutta la nostra esistenza e alla quale attingiamo nei momenti più diversi per avere la conferma di esistere, di essere stati, di essere oggi e, si spera, anche domani.
Il primo Natale che ho stampato nella pellicola della mia vita deve essere quello del 1959 o 1960, avevo dunque 4 o 5 anni. Abitavamo in un alloggio della Marina Militare a Taranto, in Via Di Palma 137, scala B, quinto piano. Una casa che io amavo molto, la prima di cui abbia memoria. Essendo all’ultimo piano aveva una terrazza molto grande che dava sul mar Piccolo (a Taranto di mari ce ne sono due, il Mar Grande e il Mar Piccolo, mica noccioline!) proprio sopra l’Arsenale Militare dal quale partiva durante giorno una sirena assordante che scandiva l’entrata, la pausa pranzo e l’uscita del personale. I primi giorni furono abbastanza duri, andavo a nascondere la testa sotto al cuscino, poi ci feci l’abitudine. Uno dei posti che amavo di più di quell’appartamento era il vano della porta finestra dove c’era spazio per un paio di poltrone e un tavolino. In uno degli angoli accanto alla porta finestra mia madre fece l’albero di Natale, un alberello finto, ma carino con tutte quelle belle decorazioni di vetro luccicante e colorato, fragilissime come una sfoglia, delicate e preziose. C’erano anche i fiocchi di neve di lana di vetro che dovevi stare attento a non stropicciarti gli occhi dopo averla maneggiata. E, dulcis in fundo, le candeline vere, di cera, “all’inglese” disse mia madre, rivendicando la metà del sangue anglosassone che le scorreva nelle vene. Io ero un po’ perplessa. Avevo visto l’albero di Natale del Circolo Ufficiali della Marina, un gigantesco abete pieno di decorazioni e di luci multicolori intermittenti, magnifico e imponente. Ma forse, pensai, le luci elettriche sono solo per quegli alberi, quelli importanti, istituzionali, a casa sarà meglio avere le candeline vere, come dice la mamma (mai avrei osato contraddire mia madre, vivevo nella sua ombra).
Poco prima di Natale, come avveniva ahimè abbastanza spesso, i miei genitori litigarono e mio padre se ne andò a passare le feste nella casa di famiglia a Pico, provincia di Frosinone. Mia madre ed io restammo a Taranto nella nostra bella casa senza telefono e anche senza ascensore, con la caldaia alimentata a carbone che dovevamo portarci su per cinque piani dalla cantina. Ma non ci perdemmo d’animo, eravamo una squadra in fondo. E così la sera della Vigilia di Natale, aspettando l’arrivo di Babbo Natale, mia madre accese le candeline dell’albero. Effettivamente avevano un loro perché, un alone romantico, la luce tremolante eppure viva che guizzava tra i rami e si rifletteva nelle decorazioni. L’atmosfera del Natale, nonostante l’assenza di mio padre, c’era. La tavola era apparecchiata, la radio mandava una musichetta natalizia. Ci mancava davvero solo il caro vecchio Babbo Natale… e invece fu un attimo, un guizzo improvviso e l’albero si trasformò in una torcia. Mia madre, con la prontezza di spirito e di riflessi che l’ha sempre contraddistinta, lo afferrò, aprì la porta finestra e lo scaraventò sul terrazzo dove il povero albero e le splendide decorazioni si trasformarono ben presto in un mucchietto di cenere. Era successo tutto in un attimo e io ero talmente esterrefatta che non piansi nemmeno. Ricordo vagamente che mia madre fece una battuta, non ricordo quale, ma ricordo il suo sorriso che cercava di consolarmi. Non dissi una parola, mi dispiaceva per l’albero, ma era pur sempre stato un Natale diverso da quello di chiunque altro e seppi subito che non lo avrei più dimenticato, lo avrei raccontato per anni e ne avrei tratto l’insegnamento della caducità delle cose e, soprattutto, che poteva essere Natale anche senza albero, senza palline e senza mio padre al quale andammo a fare un telegramma alla Posta (non avevamo ancora il telefono) attraversando la città sotto la pioggia, io con i miei stivali di gomma gialli e la mantellina impermeabile, un telegramma in cui mia madre scrisse “Torna a casa papà. Irene” al quale lui non rispose, presentandosi a casa dopo svariati giorni, quando Natale era passato, i regali erano arrivati ugualmente anche senza l’albero e senza di lui: li avevo trovati ai piedi del letto la mattina di Natale. Per molti anni, nei Natali a venire, nessuno mai abbastanza bello da esorcizzare quel primo tragicomico e affumicato, con mia madre rievocavamo quell’episodio e ci veniva da ridere nonostante tutto perché nella vita bisogna sempre trovare il lato buono, divertente, altro delle cose, quello che ti ribalta la situazione e ti aiuta a trovare uno spiraglio anche tra le nuvole più nere. La scena di lei che dopo aver agghindato i rami con grazia e buongusto e acceso le candeline con emozione, aveva afferrato la torcia natalizia e si era prodotta in una buona prova di lancio dell’albero aveva una valenza comica non indifferente, oltre a dimostrare un sangue freddo non comune per una donna dell’epoca.
E comunque, sarà stato l’imprinting, o la constatazione che Natale forse è uno stato d’animo e che i simboli, le celebrazioni, i riti prescindono dalla realtà e non hanno una sola modalità, ma possono essere interpretati a piacimento senza che nessuno si senta offeso o defraudato, che l’albero, il panettone, i regali e anche lo spirito del Natale sono solo una convenzione se non c’è nulla a sostenerli, se è tutto tanto per fare, perdonatemi, ma io il Natale non l’ho mai amato molto.