È la fine del 1978. Sono appena tornato da Torino, per ripartire da zero alle spalle e con una valigia di libri quale unico “trofeo” di oltre otto anni di vita. 30 anni ed tutto da rifare. Per di più son stato trasferito a Roma ma il mio rapporto con questa città non è per nulla facile: ci ho studiato e vissuto per un anno, ma sono (e lo resterò per tutta la vita) un inguaribile provinciale e con la Città Eterna il rapporto sarà sempre quello di odio ed amore. La ricostruzione che devo affrontare, dunque, passa anche per spaesamenti e grandi solitudini, visto che qui non ho veri rapporti umani consolidati. Tutto da inventare, o meglio, da reinventare.
È in questa atmosfera che mi capita di “incontrare” Heinrich Böll. Un incontro del tutto casuale e non premeditato: forse mia sorella, almeno così mi pare di ricordare, mi regala “Opinioni di un clown”. Ignoro del tutto chi sia questo Böll, cosa abbia fatto, ma, mi assicurano, che il libro tira ch’è una bellezza, soprattutto negli ambienti della sinistra.
Heinrich Böll è un tedesco, uno di quelli che ha vissuto il nazismo da dentro, pur essendone, lui e la sua famiglia, un deciso oppositore. S’è dedicato alla scrittura molto presto ma è dovuto andare in guerra a combattere per Hitler. Sopravvive, torna a Colonia, sua città natale: una città devastata dalla guerra. Soprattutto torna in una realtà che deve fare i conti con le responsabilità morali d’un fresco passato difficilissimo da mandar giù. Per quanto tu no abbia condiviso le follie naziste, devi convivere col peso d’un popolo che ha portato orrori inenarrabili come un trofeo.
Tutto questo però lo saprò solo dopo aver letto “Opinioni di un clown”, quando, affascinato da quest’uomo così profondo, ironico e, al tempo stesso, chiaramente sofferente per quelle che, in qualche modo, considera il peso morale di quanto il nazismo ha perpetrato, cerco informazioni su di lui.
Perché quell’incontro diventa importante per me: durante la lettura alterno il coinvolgimento per il profondo dolore dell’autore alla sua sottile e tagliente ironia. Ricordo soprattutto le sue critiche, composte ma profonde ed assai acute, all’ipocrisia cattolica. Al tempo stesso quella lettura arriva, come accennavo, in un momento della mia vita in cui anche io, come l’autore (ed il parallelismo finisce lì, sia ben chiaro), mi sto sforzando di ricostruire il senso dei miei giorni. Sento come d’aver trovato un amico, con cui mi capisco e che può capirmi.
D’altra parte, Böll fu un uomo, come poi imparai leggendo altre sue opere, che visse con passione la sua cultura e la sua nazione ma che, al tempo stesso, riuscì ad essere lucido e quasi distaccato nell’affrontare le complesse radici di quanto la storia aveva riservato al suo paese e cui lui partecipò in prima persona. Dei suoi libri, che ho letto quasi tutti, ricordo soprattutto le atmosfere intime e sofferte, il suo modo distaccato eppure coinvolto di raccontare le storie. Perché sa essere distaccato quanto serve a giudicarle per quello che sono (soprattutto negli errori e nelle incongruenze) e, al tempo stesso, senti che lui c’è dentro tutto intero, che vengono direttamente e senza intermediari dal suo intimo più profondo.
Dicevo che ho letto quasi tutte le sue opere, anche quel “Foto di gruppo con signora” del 1971 che gli valse, l’anno successivo, il Nobel per la letteratura. Emozionalmente, resto legato a “Opinioni di un clown” e ad altri suoi lavori quali “E non disse una parola” e “Biliardo alle nove e mezzo”, ma conservo anche il piacere di quell’affresco geniale ch’è il libro premiato a Stoccolma. Ricordo che una mia amica di allora, cui avevo consigliato la scrittura, mi disse che lo vedeva benissimo come sceneggiatura d’un film. Ch’io sappia, nessuno ha sentito il bisogno di realizzare questo film ma, probabilmente, la mia amica aveva perfettamente ragione. Tuttavia, evidentemente, era qualcosa di troppo impegnativo e creativo per un mondo che preferisce di gran lunga investire denaro prendendo spunto dall’inesauribile spazzatura umana in cui viviamo.
Böll se n’è andato nel 1985, a 68 anni, dopo averci lasciato un bellissimo affresco di un’epoca dura e complessa. Mi piace concludere questo, che vuol essere un omaggio alla sua grandissima figura, con un piccolo fatto che, a mio avviso, molto dice sul popolo tedesco. Giusto non troppo tempo dopo quella mia “scoperta” mi capita di conoscere una ragazza tedesca e, tanto per darmi un tono con lei, le cito questo autore. Ma lei mi dice di non conoscere questo Böll. Trovo strana la cosa, anche perché me l’hanno presentata come studentessa universitaria in lettere. Cerco di spiegarle di chi si tratta e, dal momento che non conosco il tedesco, se non per poche parole, sebbene stia frequentando un corso di lingua al Goethe Institute di Roma, nutro qualche perplessità riguardo alla di lei conoscenza dell’italiano. Dopo un poco che parliamo lei, d’improvviso, fa: «Ah, Heinrich Böll!» e pronuncia il “ch” finale del nome alla maniera dura, come fosse un “k” con una aspirazione finale. Io invece lo pronunciavo come fosse un “sc” (quello di “scivolare” per intenderci) esattamente come la mia insegnate di tedesco diceva fosse la pronuncia tedesca.
Viene così fuori che la mia sarebbe una pronuncia “austriaca”, mentre la sua quella tedesca corretta. Non dubito avesse ragione, ma mi pare un po’ assurdo che quella differenza di pronuncia le impedisse di capire chi fosse l’autore di cui parlavo. Più probabile si trattasse della teutonica ed un po’ ottusa pignoleria dei tedeschi così celebrata nelle barzellette. Ignoro, in ogni caso, le motivazioni della mia interlocutrice visto che, debbo essere sincero, già non mi interessava granché prima della piccola sceneggiata. Figuriamoci dopo.
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