Racconto in 2 puntate
Personaggi ed Interpreti:
Io – nel ruolo di me stessa
Amaranta – la mia alter ego
Cagliostro – il mio gattone nero
Vestita di un abito chiaro e a piedi nudi, in compagnia di Cagliostro che, controvoglia a dire il vero, sfoggia sulla coda, in onore della primavera, un vistoso nastro turchese, siamo in visita all’antro, seppure in un’ora inopportuna perché di certo tutti staranno ancora dormendo.
Ma non è così.
Dietro i vetri della finestra c’è Amaranta, tazzina di caffè in una mano e cigarillo nell’altra, totalmente immersa nei suoi pensieri, non s’avvede della mia presenza se non dopo il mio lancio di un sassolino contro la persiana.
Allora spalanca la finestra e, sporgendosi a salutarmi, m’invita ad entrare in casa
– Hey, Mari, sali, presto, ho qualcosa da mostrarti –
M’incuriosisce, però, questo suo entusiasmo mattiniero, perché di solito lei carbura molto tardi e tanto meno è incline alle confidenze.
Così entriamo, Cagliostro ed io, accolti dalle fragranze del caffè e del cigarillo…e da un’Amaranta insolitamente sorridente a quell’ora del mattino.
Mi trascina così in camera sua che, seppur ancora avvolta nella penombra, noto un grosso involucro sul letto.
– Cos’è… il cadavere di qualcuno? – domando con qualche ansietà
– No, il contrario, invece: è la resurrezione di qualcuno – risponde criptica
Temo sempre questo genere di risposta quando è Amaranta a darla, perché posso solo presagire che si tratterà sicuramente di una catastrofe imminente, della quale, però, non mi è subito possibile quantificarne le dimensioni.
La mia alter sorellina è oltretutto dotata di un humor terrificante, e quindi non mi riesce mai di capire a primo acchito di cosa diavolo stiamo parlando.
– Ok. Amaranta, ti prego, illuminami…e non solo in senso metaforico, che fuori è già giorno e qui dentro, invece, siamo in pieno crepuscolo –
Ma non faccio in tempo a finir la frase che Cagliostro si precipita con la furia di un kamikaze sul grosso involto, talmente veloce che nessuna di noi due ha il tempo di fermarlo.
…ed evitare la tragedia che tra meno di un secondo ci coinvolgerà tutti.
Così, mentre io annaspo nel buio cercando di bloccare Cagliostro entusiasticamente lanciato all’arrembaggio dell’involucro, che di mollare la presa non ne vuole proprio sapere, eccitato dal gioco e consapevole della sua agilità felina, supremazia con la quale non posso certo competere, producendosi in acrobazie sperimentali con la sfacciataggine irridente di un clown, cosicché quando finalmente credo di averlo afferrato mi ritrovo, tra le mani, solo il nastro turchese, quello legato alla sua coda, mentre lui si eclissa nell’attimo stesso in cui la luce del giorno inonda la stanza.
– Cazzo, Mari, ma devi sempre portartelo dietro quel gatto pestifero? Guarda cosa ha combinato!
E con la mano indica un oceano spumoso di tulle rosso trasbordante dal letto, chilometri di onde che dilagano in rivoli a lambire il pavimento come una soffice, irreale, schiuma vermiglia: l’abito più fantastico sulla faccia della terra.
– Non startene lì imbambolata, Mari, aiutami a controllare che il tuo gatto non l’abbia danneggiato –
Mi esorta aggressiva, mentre s’accinge a ripulire, impaziente e nervosa, quell’abito irreale, dai brandelli residui di quella carta velina di cui Cagliostro ha fatto scempio.
Stupita, immergo le dita in quella fiabesca spuma di tulle, pregando tutte le divinità, monoteiste e politeiste, che non ci siano strappi a deturpare quella meraviglia che le mie mani toccano, ma che i miei occhi, ancora increduli, dubitano sia reale.
Così, io e Amaranta, da angoli opposti, con grande attenzione controlliamo e valutiamo l’integrità del tessuto, e se non si rilevano anomalie, lei me ne fa partecipe con teatrali sospiri di sollievo ed io, invece, con sommessi ma udibilissimi “bene”.
Un lavoro impegnativo.
Lungo e certosino.
Snervante.
A – Smettila di dire “bene” –
M – E tu finiscila di sospirare –
Così ricominciamo a battibeccare, anche se io non voglio indisporla, riconoscendole tutte le ragioni, e non è neppure colpa di Cagliostro, ma solo della mia distrazione, che conoscendo benissimo la propensione piratesca del mio gatto agli arrembaggi, avrei dovuto non farlo entrare in questa stanza.
…eppoi non voglio litigare con lei perché voglio sapere la storia di quest’abito fiabesco, sul come/dove/quando è arrivato nell’antro.
Ma soprattutto il perché.
– Ho fastidio agli occhi…tutto questo mare di rosso, quasi non vedo più nulla – Butto lì, con tono distensivo
– Hai pure il coraggio di lamentarti? Fossi in te starei zitta! – Ribatte, niente affatto conciliante –
– Hai ragione, colpa mia, ti chiedo scusa. Per fortuna non ci sono danni…almeno sul mio versante –
E stavolta sono io a lasciarmi finalmente andare ad un liberatorio, teatralissimo, sospiro di sollievo.
– E sul tuo? – Chiedo titubante
– Sul mio… cosa? – Risponde nervosa
– Riscontrato danni sul tuo versante? – Domando preoccupata
– No – La sua risposta coincisa
M – Possiamo parlarne? –
A – Di cosa? Mi hai già chiesto scusa. Finiamola qui –
M – Parlare dell’abito, intendo –
A – Non ho voglia di raccontarti niente –
M – Questo è l’abito più bello del mondo, è giusto che l’abbia tu –
A – Non cercare di blandirmi. Lo sai che non funziona –
M – Nessuna sviolinata. Mi conosci anche tu e sai che non amo adulare –
A – Tu vuoi la storia dell’abito per scriverci poi un racconto. Mi sento fagocitata! –
M – Mi eri sembrata entusiasta di mostrarmelo –
A – Mostrare e basta –
M – Ok, come vuoi –
Non ho voglia di discutere, e posso benissimo inventarlo io un racconto su quell’abito.
Di fantasia abbondo ma è di pazienza che in questo momento difetto, e così per non inasprire ulteriormente la situazione decido di togliere il disturbo, quando la voce di Amaranta, in atto di sfida, mi gela sulla soglia, pronunciando un nome: Henry Chinaski