Majakovskij si aggirava silenzioso per le stanze. La penombra sembrava avvolgere tutto in un velo diafano, una sorta di patina opaca, il segno del tempo. Si fermò nel salotto, davanti alla porta finestra dalla quale filtrava un raggio di sole che si allungava sul pavimento di cotto consunto. Lo osservò per un attimo, poi spostò lo sguardo penetrante dei suoi occhi grigio verde sul divano. Ripensò a quante volte si era allungato su quei morbidi cuscini per riposarsi, mentre sentiva le voci e i rumori della vita domestica provenire dalle altre stanze. Uscì nel corridoio ed entrò nella stanza della Vecchia Signora. Tutto era ancora come allora: il letto, l’armadio, la bella toilette con il grande specchio e le foto sul ripiano di marmo nero, accanto al servizio di spazzole d’argento. Gli sembrò di sentire la sua voce, risentì il tocco della sua mano e rivide il suo sorriso. Prima che la nostalgia gli serrasse la gola, uscì dalla stanza. Attraversò il buio corridoio e arrivò nella grande cucina, davanti al camino. Il paiolo di rame era ancora appeso alla catena sul braciere del camino, non più tirato a lucido come una volta, ma sempre bello. Ripensò al chiacchiericcio e alla confusione dei giorni di festa, quando tutta la famiglia si riuniva per il pranzo, quando il fuoco ardeva incessantemente nel camino e lui poteva goderne il tepore, quando i bambini riempivano con le loro voci e la loro allegria quella casa troppo grande. Sentiva gli aromi, i profumi delle pentole sulla cucina economica, l’odore della legna che ardeva. Ora il silenzio si era impadronito di quel luogo e la faceva da padrone.
Majakovskij si avviò lentamente verso la terrazza e uscì fuori, nel sole tiepido del pomeriggio autunnale. I vasi da fiori erano tristemente vuoti, ma tutti ancora al loro posto, come se aspettassero da un momento all’altro di essere riempiti di fiori variopinti, come una volta. Erano stati testimoni di esplosioni floreali ogni stagione: rose sfacciate nella loro eclatante bellezza, ibiscus vermigli, gelsomini che riempivano l’aria del loro penetrante profumo, caprifoglio che ricopriva i muri di cascate odorose, e portulache, dalie, zinnie, garofani. Vestigia di un passato ormai remoto.
L’unico che restava al suo posto, maestoso e al contempo straordinariamente bello, era il grande oleandro rosa. Sembrava stare a guardia della terrazza e del piccolo “orticino”, come veniva chiamato dalla famiglia, che si trovava sul retro. In estate diventava una palla rosa gigantesca che si vedeva dalla strada provinciale mentre ci si avvicinava al paese. Era la croce e delizia degli abitanti della casa perché tutti i giorni toccava racimolare con il rastrello fiori e foglie che cadevano ai suoi piedi, ma la bellezza della pianta era tale che anche la fatica della pulizia del terreno passava in secondo piano. Ora i fiori non c’erano, non era stagione, ma Majakovskij sapeva che sarebbero tornati a primavera, era una delle poche certezze che gli erano rimaste.
Rientrò in casa e lentamente scese le scale di pietra dove intere generazioni di bambini si erano divertite a scenderle seduti, giocando a fare “le pagnotte” come si diceva in paese.
Certi lividi sul fondo schiena, ma che divertimento!
Entrò nello studio, gettò uno sguardo ai libri chiusi nella libreria a vetri. Ne conosceva i titoli a memoria, ma non si stancava mai di guardarli. In fondo alla stanza c’era ancora il tavolo da disegno di Alberto, l’ingegnere. Appuntato sopra un foglio da disegno con un progetto di chissà cosa, ormai sepolto dalla polvere. Sulla scrivania un bicchiere pieno di matite tutte temperate perfettamente, come se aspettassero solo di essere usate, impazienti di partorire figure, disegni, piantine e progetti. Anche lì solo ricordi, voci, volti, ombre silenziose.
Majakovskij terminò la sua ispezione al piano inferiore e lentamente salì i gradini della scala d’ingresso. La sua attenzione fu attirata da qualcosa che si muoveva freneticamente in un angolo sotto il quinto gradino. Si fermò di scatto, annusò l’aria e puntò gli occhi grigio verde nella penombra. Gli ci volle qualche secondo per capire che la creatura che si agitava era una piccola lucertola rimasta imprigionata in una ragnatela. Il suo primo istinto gli diceva di mangiarla, era anche una preda facile. Ma Majakovskij non era un gatto comune.
Guardò ancora per un attimo la creatura che si dibatteva, e che così facendo peggiorava la sua situazione, poi con delicatezza allungò la sua lingua rasposa e staccò la ragnatela dalla pietra. La piccola lucertola restò immobile, un po’ per il terrore di finire nelle fauci di quel grosso gatto bianco e nero, un po’ perché non aveva più forze, ansimava per l’inutile fatica nel tentativo di liberarsi e aveva in corpo anche un po’ di veleno che il ragno pungendola le aveva inoculato. Così restò immobile nel suo torpore in attesa che il suo destino si compisse. Chiuse gli occhi e smise di pensare, in una sorta di dormiveglia. Majakovskij la prese delicatamente con la bocca, facendo attenzione che i suoi denti aguzzi non la sfiorassero, salì in fretta le scale e uscì sulla terrazza. Cercò un angolo dove batteva il sole e depose la piccola lucertola sul muretto. Poi prese a leccarla per liberarla dalla ragnatela che la teneva prigioniera. Non fu semplice questa operazione, ma il gatto era determinato e alla fine riuscì nel suo intento. Ora la piccola lucertola stava sulla pietra tiepida, gli occhi chiusi e il cuore che pulsava debolmente. Majakovskij decise che doveva trovarle del cibo, non ce l’avrebbe fatta se non mangiava qualcosa, era troppo debole. Velocemente rientrò in casa. Ricordava di aver nascosto un paio di biscotti che aveva raccattato per strada, seguendo un bambino che andava a scuola, sotto al lavandino della cucina. Ne prese uno e lo portò fuori, lo sbriciolò vicino alla lucertolina e si allontanò, restando, però, ad una distanza tale dalla quale poteva osservare.
Rimase così per un tempo che gli sembrò infinito. La piccola lucertola era troppo debole e ci mise molto tempo per aprire gli occhi, guardarsi intorno e vedere il cibo. Lentamente si avvicinò ad una delle briciole e la mangiò, poi ne mangiò un’altra. Subito sentì un po’ di energia tornare nel suo corpicino. Rimase ancora al sole, sentiva che il tepore le faceva bene. Intanto Majakovskij la osservava, senza essere visto.
Il sole lentamente cominciò a scendere all’orizzonte, l’aria si fece più fredda. Majakovskij non si era mosso dalla sua postazione di osservazione. La piccola lucertola aveva finito tutte le briciole, si era guardata intorno per capire se per quel giorno i pericoli erano finiti, e poi, con una velocità insospettabile, era scivolata lungo il muro di cinta dell’orticino e si era infilata in una fessura. Solo allora il gatto si mosse. Era contento che quel piccolo animale ce l’avesse fatta. Non gli era mai piaciuto vedere morire una creatura vivente. Era un gatto sui generis in questo. Certo, mangiava, cacciava i topi, ma i topi non erano nella sua gerarchia animali degni di vivere, non fosse altro perché la Vecchia Signora ne era terrorizzata e Majakovskij aveva deciso molti anni prima che la sua missione sarebbe stata quella di tenere i topi alla larga dalla Vecchia Signora, alla quale era legato da un amore profondo. E poi c’era stato l’episodio che gli aveva segnato la vita…Ma a quello non voleva pensare, era già tanto difficile continuare a portarselo dentro…Si stirò con uno sbadiglio e rientrò nella casa buia e silenziosa. Si acciambellò sul divano del salotto e si addormentò cercando di non pensare a nulla.
Il raggio di sole riempì la stanza di luce e Majakovskij aprì gli occhi. Era stato un sonno senza sogni, per fortuna. Paventava le visioni notturne, gli incubi che avevano popolato per anni le sue notti. Doveva mangiare qualcosa, si ricordò che la sera prima non aveva cenato, così uscì dalla casa attraversando la vecchia porticina creata apposta per lui e per i suoi compagni nella porta d’ingresso laterale, quella che dava sulle scale del vicolo. Si aggirò annusando l’aria e seguì gli odori che gli solleticavano le narici. Era venerdì, c’era il mercato del pesce: una vera fortuna! Il gatto puntò una bancarella e si piazzò sul bordo della strada, in prossimità del tavolo dove il pesce veniva pulito. Lì vicino c’era un bidone dove venivano buttati gli scarti. Attese che l’uomo addetto alla pulizia del pesce si allontanasse, poi tuffò il muso in quel ben di Dio e si concesse un pasto ottimo e abbondante. Con calma si diresse alla fontana, doveva bere per mandar giù tante leccornie! Si fermò davanti ad un cespuglio di rose selvatiche e cominciò a lavarsi, leccando accuratamente il pelo, per togliere tracce e odore del suo lauto pasto, poi si stirò e fece ritorno verso casa. Passando per il vicolo, all’imbocco della salita, vide il gruppo degli altri gatti, ma non li degnò di uno sguardo. Non amava la loro compagnia, era un solitario. Neanche gli altri gatti lo amavano, erano convinti che fosse superbo e non si abbassasse alla loro compagnia di gatti di strada solo perché era stato il gatto della più importante famiglia del paese, un vero gatto di casa, rispettabile. La verità era un’altra, molto più complessa e niente affatto classista, ma loro, i gatti del vicolo, molto probabilmente non l’avrebbero mai saputa.
Majakovskij entrò in casa e si diresse sulla terrazza. Era mezzogiorno, il sole era alto e tiepido, si acciambellò davanti all’oleandro guardando la montagna di fronte. Il vento faceva frusciare le foglie, si insinuava tra le stecche delle persiane dove la vernice si scrostava per il tempo e l’abbandono, faceva rotolare un batuffolo di lanugine sulle mattonelle scolorite.
Il gatto sonnecchiava, ma era vigile. Ad un tratto sentì un rumore, era quasi impercettibile, ma era un rumore diverso dal fruscio del vento. Drizzò le orecchie, lentamente si girò e sul muretto, esattamente nello stesso punto dove l’aveva deposta il giorno prima, vide la piccola lucertola. L’animaletto era immobile, con la testa sollevata e i piccoli occhi neri che scrutavano tutto intorno. Vide il gatto che la fissava con i suoi grandi occhi. Certo, era bello grosso. La lucertola non era un animale molto coraggioso e quello che aveva davanti era un suo naturale nemico, un predatore. Eppure il giorno prima l’aveva salvata da morte certa, le aveva procurato del cibo, l’aveva messa al sicuro. Strane cose accadono a volte nella vita!
Si disse che non poteva non ringraziarlo, in realtà era tornata apposta, voleva capire bene come stavano le cose. Era una piccola lucertola, ma piuttosto decisa, determinata e curiosa. Per questo si era messa spesso nei guai, come il giorno prima.
Raccolse tutto il suo coraggio e disse:- Buongiorno gatto, volevo ringraziarti.
Majakovskij continuò a fissarla in silenzio.
– Volevo ringraziarti per avermi salvata ieri – continuò la piccola lucertola.
– Non c’è bisogno che mi ringrazi – disse il gatto voltando la testa verso la montagna.
– Ma io sarei morta se tu non fossi intervenuto. Tu mi hai salvato la vita.
– Ma smettila! Non ho fatto niente di eccezionale. E’ che non mi stanno simpatici i ragni, sono subdoli e vigliacchi, e io odio i vigliacchi.
La lucertola prese coraggio, scivolò giù dal muretto e si avvicinò al gatto. Da vicino era ancora più grosso. Lo osservò con attenzione, lo fissò negli occhi. Aveva strani occhi grigio azzurri, dalla forma allungata. Erano occhi straordinariamente belli e incredibilmente tristi.
– Tu vivi tutto solo in questa grande casa?- chiese
– Sì, non c’è più nessuno dei padroni, tutti morti.
– E tu perché rimani?
– Ma quante domande fai? Sei proprio una bella ficcanaso!
– Scusa, non volevo essere invadente. E’ solo che mi sembra strano che tu possa vivere tutto solo e senza la compagnia di nessuno, soprattutto dopo essere stato un gatto di casa. Chissà quante cose sono accadute tra queste mura, sicuramente conosci un sacco di storie interessanti.
Majakovskij guardò la lucertola più attentamente. Ma da dove saltava fuori questa creaturina curiosa che cercava di insinuarsi nella sua solitudine?
– Certo, conosco perfettamente la storia degli abitanti di questa casa, sono stato con loro molti anni – disse con una sorta di aria di superiorità
– E perché non me le racconti? A me piacciono molto le storie – incalzò la lucertola
– E perché mai dovrei raccontarle proprio a te?
– Beh, perché te lo sto chiedendo e poi perché penso che non ci sia niente di male se ci facciamo un po’ di compagnia, siamo soli tutti e due.
Il gatto sbuffò. Accidenti, era proprio insistente quella piccola lucertola! Forse avrebbe fatto meglio a lasciarla in pasto al ragno, pensò. Ma si pentì immediatamente di quel pensiero e una fitta del vecchio dolore gli trapassò il cuore.
– Cosa ti fa pensare che io voglia compagnia, la tua compagnia? – disse cercando di usare il tono più burbero che conosceva.
– Senti gatto, io non voglio che tu faccia niente per forza e che non ti vada di fare. Penso soltanto che mi hai salvato la vita, che ti sono riconoscente per questo e poiché sono piccola e non so fare molto, l’unico modo che ho per dimostrarti la mia gratitudine è cercare di alleviare la tua solitudine. Io so bene come si sta da soli e non mi pare che sia una bella condizione. Ma se tu non vuoi non insisto, me ne vado e ti lascio padrone del tuo silenzio e di questa casa. –
Mentre gli diceva queste parole lo guardò dritto negli occhi e quello che vide fu qualcosa che non avrebbe mai dimenticato.
Majakovskij sospirò. Quella bestiolina aveva ragione. Era padrone di quell’immenso nulla pieno di ricordi che riviveva continuamente e così facendo, da solo, non faceva altro che rigirare il coltello nella piaga. Sapeva che in certo senso era tutto calcolato: lui voleva soffrire, voleva espiare, voleva punirsi per quello che non era riuscito a fare. Ma in alcuni momenti si domandava se tutto questo avesse un senso, se avrebbe mai potuto imparare a convivere pacificamente con la sua ferita, se avrebbe trovato il coraggio di tornare a vivere pienamente.
La piccola lucertola lo guardò ancora per qualche istante. Poi, interpretando il suo silenzio come un rifiuto, lentamente si diresse verso il muretto. Era quasi arrivata in cima quando la voce del gatto la fermò:
– Aspetta! – La lucertola si voltò.
– Cosa vuoi sapere?- chiese Majakovskij
– Qualunque cosa tu voglia raccontarmi – rispose
– D’accordo. Vieni qui – le disse.
La lucertola gli si mise davanti sul pavimento della terrazza. Il sole era ancora alto nel cielo, il suo tepore era piacevole. Il gatto cominciò a raccontare e a mano a mano che andava avanti personaggi, luoghi, situazioni si materializzavano davanti agli occhi della lucertolina. Era come se quella casa riprendesse vita attraverso le parole del gatto. Era un bravo narratore e lei lo ascoltava attentamente, non perdeva una parola, non lo interrompeva anche se avrebbe avuto mille domande da fare. Tenne a freno la sua curiosità. Aveva capito che per la prima volta il gatto parlava così liberamente e diffusamente della sua vita e di quella casa. Ripercorrere il suo passato gli faceva bene, era stato un buon gatto di casa, molto amato dai suoi padroni che a sua volta lui aveva molto amato, soprattutto la Vecchia Signora.
Le ore passarono velocemente e il sole tramontò dietro la montagna prima che i due potessero accorgersene.
– Si è fatto tardi – disse ad un tratto la lucertola – E’ ora di andare. Se vuoi torno domani.
I due si salutarono e si augurarono la buona notte dandosi appuntamento all’indomani.
Majakovskij entrò in casa. Non riusciva a capire come si sentisse, era confuso. Da anni non parlava tanto con un altro essere e per la prima volta aveva raccontato episodi della sua vita e lo aveva fatto con piacere. Si aggirò per le stanze vuote e silenziose come se cercasse tra quelle mura le risposte alla sua inquietudine. Si sentiva combattuto: da un lato avrebbe voluto restare chiuso nella sua torre d’avorio che lo aveva preservato da qualunque contatto con altre creature e messo al riparo dalla curiosità, dal doversi confrontare, dal dover vivere nel vero senso della parola. Dall’altro sentiva che la lucertola aveva ragione: quella totale, assurda solitudine che si era imposto non gli faceva bene. Era come se lui fosse già morto. Fece il giro di tutta la casa, si fermò a lungo nella stanza della Vecchia Signora, quasi a cercare il conforto di una sua carezza. Lei sapeva trasmettergli affetto e calore. Quante volte, dopo una scorribanda, si rifugiava sulle sue ginocchia, ancora con il cuore in tumulto e lei allungava la bella mano sul suo pelo lucido e lo accarezzava amorevolmente finché lui si addormentava rasserenato! Anche dopo quella notte, quella maledetta notte, lei aveva cercato di placare il suo dolore, lo aveva rassicurato, aveva cercato di consolarlo, lo aveva costretto ad accettare del cibo dopo giorni e giorni di digiuno volontario. Lo aveva tenuto con sé giorno e notte fino a quando non si era ripreso del tutto. Lei voleva che lui vivesse.
Ecco la risposta che Majakovskij cercava. Lui doveva continuare a vivere, essere il depositario dei ricordi e della storia di quella casa e di quella famiglia, ma doveva andare avanti, nonostante tutto. Stremato si acciambellò sulla poltrona dalla tappezzeria fiorata ormai consunta e si addormentò.
L’indomani mattina la piccola lucertola tornò come aveva promesso, il gatto era sulla terrazza che l’aspettava. Il cielo era grigio e si era alzato un vento gelido.
– Vieni dentro – le disse Majakovskij – Ti faccio visitare la casa. –
La condusse in ogni stanza e ovunque, in ogni angolo, c’era una storia, un episodio da raccontare. La piccola lucertola era affascinata e lo seguiva in quel viaggio meraviglioso e incredibile che non pensava avrebbe mai fatto. Se solo pensava che due giorni prima poteva essere morta! Senza essere vista lanciò al gatto uno sguardo pieno di riconoscenza e di affetto sincero. Il loro viaggio li portò fino ad una piccola porta ricavata nella parete delle scale, poco distante dallo scalino dove il gatto aveva trovato la lucertola imprigionata nella ragnatela.
– E da qui dove si va? – chiese
– Da nessuna parte – rispose brusco il gatto e i suoi occhi si fecero scuri tutto ad un tratto.
La piccola lucertola non disse niente, aveva capito che dietro quella porta c’era qualcosa che il gatto non voleva condividere con lei. Lentamente risalirono le scale e andarono in cucina.
– Mi è venuta fame – disse lei con tono allegro, cercando di spezzare la tensione che si era creata tra di loro. Majakovskij andò a rovistare sotto il lavandino e tirò fuori un paio di biscotti. Ne sbriciolò uno e lo spinse davanti alla lucertola.
– Mangia piano e solo le briciole più piccole, altrimenti ti affoghi – le disse con tono serio, ma si sentiva una sincera preoccupazione nelle sue parole. La lucertolina sorrise tra sé e cominciò a sgranocchiare diligentemente una briciola minuscola.
Era ormai diventata una consuetudine incontrarsi ogni mattina: Majakovskij usciva sulla terrazza e aspettava che la piccola lucertola comparisse sul muretto. Poi andavano in giro per la casa o per il giardino, a volte si avventuravano nei dintorni della grande casa, in cima alla collina che dominava il paese. Il gatto non voleva ammettere neanche con sé stesso che quella nuova presenza nella sua vita era una cosa bella e positiva. Le sue resistenze a uscire dalla sua corazza di solitudine erano ancora molto forti. Eppure ogni mattina era lì che aspettava e doveva ammettere che si sentiva molto lusingato di essere il narratore e la guida della piccola lucertola. Questo ruolo lo faceva sentire importante, solleticava la sua innata vanità che ogni tanto spuntava fuori inevitabilmente. Inoltre rivivere i momenti del passato lo divertiva e gli offriva l’occasione di rivedere la sua vita non solo attraverso i suoi ricordi, ma anche con il contributo dei commenti e delle mille domande della lucertola. Era proprio uno strano animaletto, pensava il gatto. In quella sua minuscola testolina c’era un cervello acutissimo, pronto a cogliere anche le minime sfumature. E una straordinaria sensibilità. La sua compagnia era molto piacevole, ma lui non dimenticava mai la sua scelta di essere un animale solitario e indipendente. Non aveva bisogno di nessuno e stava bene così.
Una mattina di pioggia la piccola lucertola sgattaiolò in casa passando sotto la porta finestra. Di Majakovskij nessuna traccia, probabilmente dormiva ancora da qualche parte. Lei scese le scale, facendo bene attenzione ad evitare le ragnatele, e si fermò davanti alla porticina dietro la quale non sapeva cosa si celasse. Era molto curiosa, aveva capito che quel luogo custodiva un segreto, un segreto probabilmente doloroso per il gatto che non aveva voluto parlargliene. Doveva essere qualcosa che aveva a che fare con il suo sguardo, pensò la lucertola e si sentì stringere il cuore. Aveva capito che il suo nuovo amico si portava dentro un grande dolore con il quale doveva convivere e questo la faceva soffrire. Desiderava disperatamente aiutarlo, pensava che non fosse giusto vivere tutta la vita imprigionati in una gabbia di sofferenza.
Con lei era stato buono, di più, le aveva salvato la vita e questa era una cosa che non avrebbe mai potuto dimenticare. Le faceva male pensarlo infelice, tormentato da un ricordo evidentemente insopportabile. Fissava la porticina chiusa mentre seguiva il corso dei suoi pensieri. Poi vide una striscia di luce che filtrava, la porta era in realtà socchiusa, forse il vento soffiando attraverso i vetri rotti l’aveva aperta. La curiosità ebbe il sopravvento e dopo un’ultima esitazione entrò. Si ritrovò in una specie di officina. C’era un tavolo attaccato al muro e attrezzi di ogni tipo allineati ordinatamente sulla parete. E poi un baule, una vecchia botte, pale e rastrelli. Sui ripiani di un vecchio scaffale ceste di vimini di ogni dimensione, vecchie scatole di latta e vasi da fiori. Tutto era ammantato da una fitta coltre di polvere. La lucertolina si guardò in giro cercando qualche indizio o segnale di un evento accaduto chissà quanto tempo prima, ma tutto sembrava fermo nel tempo, come una vecchia fotografia sbiadita. Dopo un’ultima occhiata decise di andarsene e si avviò su per i gradini verso l’uscita, ma fu bloccata da un orribile topo che le si parò davanti e con un ghigno sul muso le disse:
– Ma guarda, un miserabile cucciolo di rettile! Che ci fai qui, non sai che per entrare devi chiedere il permesso a me? –
La piccola lucertola, dopo il primo momento di spavento riprese il suo sangue freddo e rispose:
– Veramente non sapevo che questa fosse proprietà privata. E’ una stanza della casa come le altre. –
– No, niente affatto! Da sempre questo è il regno incontrastato di noi topi e neanche intere generazioni di gatti sono riuscite a sfrattarci! E tu come osi entrare? Non dovresti neanche essere in casa, ma fuori a marcire tra pioggia e vento! Chi ti ha fatto entrare? –
– Sono entrata da sola – rispose la lucertola fissando il grosso topo negli occhi mentre sentiva il suo cuore battere all’impazzata per il terrore.
– Ma brava, che coraggio! Tanto non potrai raccontarlo a nessuno perché non uscirai viva di qui! Mi andava giusto di fare uno spuntino di prima mattina! –
e con uno scatto fece per avventarsi su di lei.
Ma la lucertola velocissima si arrampicò sulla parete e da lì lo guardò con aria di sfida nonostante la paura.
– Scappa, scappa, tanto ti prendo! – la minacciò il topo e iniziò ad arrampicarsi sulla parete aggrappandosi con le zampe agli attrezzi. La lucertola scappava e il topo, dimostrando una insospettabile agilità per la sua mole, la inseguiva. Ad un tratto lei scivolò sul muro e si ritrovò di colpo sul pavimento, stordita per la gran botta presa.
Il topo fu subito su di lei e la bloccò con una zampa.
– Eh, eh, volevi farmela! Ma ti avevo avvertita: io vinco sempre! –disse guardando la sua preda.
– Non sempre! –
La voce di Majakovskij tuonò nell’officina e il gatto si piantò davanti al topo.
Aveva gli occhi fiammeggianti di rabbia e il suo corpo era teso, pronto allo scatto.
Il topo lo guardò con sorpresa, poi con il suo solito ghigno disse:
– Guarda chi si vede! Pensavo fossi morto, stupido gatto! –
I due si fronteggiarono in silenzio, la lucertola aveva quasi smesso di respirare e osservava la scena ancora imprigionata sotto la zampa del topo.
– Lasciala andare! – ingiunse il gatto
– Non me lo sogno nemmeno, è mia! Si è intrufolata qui senza permesso e dunque posso farne quello che voglio. –
– Ti ho detto di lasciarla andare o sarà peggio per te! – e la voce di Majakovskij era tagliente come una lama.
– Altrimenti che mi farai, stupido felino? Non ho paura di te, non sei in grado di acchiapparmi, non lo sei mai stato. O per caso hai dimenticato? – e il suo ghigno si trasformò in una risata cavernosa.
– No, non ho dimenticato, non dimenticherò mai! – rispose il gatto e i suoi occhi erano due fessure buie.
– Proprio per questo me la pagherai una volta e per tutte! –
e dopo un impercettibile cenno alla lucertola, che si tenne pronta a scappare alla prima occasione, si avventò sul topo prima che l’orribile bestia se ne accorgesse. Appena il topo sollevò la zampa, la lucertola corse al sicuro sui gradini dell’officina e da lì osservò le fasi della lotta che avveniva tra i due animali. Non era una normale caccia del gatto col topo, c’era molto di più. Majakovskij sembrava una tigre infuriata, teneva tra i denti il topo che si dibatteva e si divincolava cercando di assestargli un morso e di graffiarlo con le sue zampe.
La lucertola non aveva mai visto nulla di simile: guardava con il cuore in gola e con un senso di colpa. In fondo se non si fosse infilata là dentro tutto questo non sarebbe successo. Che stupida era stata!
Il topo riuscì a graffiare sul muso il gatto in un ultimo gesto di difesa, ma Majakovskij lo scaraventò contro il muro. Poi gli piombò sopra e disse:
– Non amo uccidere, ma tu e la tua razza non siete degni di stare al mondo. Guardami bene perché io sono l’ultima cosa che vedrai prima del buio! –
E con un’ultima zampata lo finì.
Majakovskij era esausto, ansimando si avvicinò all’uscita dell’officina e si trovò davanti la piccola lucertola che lo guardava con un’ espressione preoccupata e colpevole. Lui la guardò per un istante, poi passò oltre, si avviò su per le scale e si rintanò nella stanza della Vecchia Signora. La lucertola indugiò per un attimo, poi lentamente salì le scale e andò a cercare il gatto. Lo trovò acciambellato sulla poltrona con lo sguardo tagliente perso nel vuoto.
– Scusami, è tutta colpa mia – disse
– No, tu non c’entri. Prima o poi doveva succedere. Io e quel topo avevamo un conto aperto, adesso è tutto finito.
– Posso fare qualcosa per te? – chiese la piccola lucertola
– Nessuno può fare niente per me. E prima lo capisci meglio è per te – rispose con durezza il gatto.
La lucertola, mortificata, fece per uscire dalla stanza. Poi ci ripensò, tornò indietro e si piantò davanti al gatto.
– Ma cosa credi che solo tu hai avuto guai e dolori nella vita? Non lo vedi come vivi, solo e lontano dal mondo come fossi già morto? Eppure non mi sembra che ti dispiaccia vivere
altrimenti potevi farla finita da molto tempo.
– Che cosa ne sai tu di me e della mia vita, del mio passato?
– E’ chiaro come il sole che nascondi un segreto doloroso che ti consuma l’anima, se non ne vuoi parlare padronissimo di non farlo. Pensavo che fossimo amici. Tu mi hai salvato la vita, addirittura due volte con oggi e io non posso dimenticarlo. Mi dispiace immensamente di vederti così. Condividere il dolore a volte aiuta a superarlo, a conviverci meglio. Cosa credi – continuò – che non abbia avuto anch’io la mia parte di sofferenza? Cosa credi che si provi vedendo tutta la tua famiglia sterminata dalla crudeltà di un ragazzino che da fuoco a tuo padre, tua madre e ai tuoi fratelli dopo averli cosparsi di alcool per il puro piacere sadico di vederli morire? E cosa pensi che si provi a non poter fare niente perché sei troppo piccola e tua madre ti ha nascosta in un buco per non farti prendere? Io mi addormento ogni notte con quelle immagini terribili negli occhi, eppure ogni giorno mi sveglio pensando che mia madre mi abbia messa in salvo perché voleva che vivessi e allora io devo vivere e andare avanti, non fosse altro che per questo. –
Il gatto la guardò in silenzio. Seguì i suoi pensieri ancora per un momento, poi disse:
– Mi dispiace per quello che è capitato alla tua famiglia. E’stata una tragica fatalità. Per me è stato diverso, io sono responsabile di quello che è successo. –
Tacque per un attimo cercando le parole per raccontare quello che non aveva mai raccontato a nessuno.
– E’ accaduto molto tempo fa. Avevo una compagna, si chiamava Lily, era bella e ci volevamo molto bene. Vivevamo felici e amati da tutti in questa casa. La casa come hai visto è molto grande e con molti accessi esterni, ragion per cui spesso entravano i topi. La Vecchia Signora ne era terrorizzata e io cercavo di fare del mio meglio per tenerli lontani. Lily era troppo giovane e inesperta per cacciare i topi, così dovevo accuparmene io. Ci fu un periodo in cui i topi sembravano moltiplicarsi e io da solo non riuscivo a liberare la casa da quella piaga. Così un giorno decisero di mettere delle esche con il veleno. Le distribuirono per tutta la casa. Io avvisai Lily di stare attenta, le spiegai che sarebbe morta se avesse mangiato una di quelle esche. Lei disse che avrebbe fatto attenzione, ma una notte che era particolarmente inquieta e non riusciva a dormire andò in giro per la casa e si infilò nell’officina. In quel periodo c’erano grandi fasci di lavanda sugli scaffali che emanavano un odore molto forte, che stordiva. Avevo fatto sentire a Lily l’odore delle esche perché le evitasse, ma in quella maledetta notte l’odore penetrante della lavanda evidentemente coprì quello dell’esca. Lily gironzolò per l’officina, poi trovò quello che credeva un pezzetto di formaggio e senza pensarci lo mangiò. Fui svegliato dai suoi lamenti strazianti, ma quando arrivai non c’era più niente da fare, il veleno aveva fatto il suo effetto micidiale. Morì soffrendo atrocemente. Io non me lo sono mai perdonato. Avevo il dovere di proteggerla, avevo il dovere di liberare la casa dai topi, ero venuto meno alle mie promesse, non meritavo più di vivere. Per giorni rifiutai il cibo, volevo lasciarmi morire perché la mia vita non aveva più senso. La Vecchia Signora mi prese con sé nella sua stanza e mi forzò a mangiare, mi accarezzò, mi vegliò e mi costrinse a vivere. Ma io non riesco a dimenticare, non riesco a perdonarmi per quello che ho fatto e, soprattutto, per quello che non ho fatto. Per questo ho scelto di stare da solo. –
La lucertola aveva ascoltato con attenzione il racconto del gatto. Era terribile. Lo guardò con infinita tenerezza. Ora lo sentiva ancora più vicino al suo cuore.
– Io non credo che tu ti debba sentire colpevole più di tanto. E’stata una fatalità, proprio come quello che è capitato alla mia famiglia, lo hai detto tu prima. Non potevi prevedere cosa sarebbe successo e non potevi combattere da solo un’orda di topi. Lily sapeva benissimo che la amavi e desideravi proteggerla e non penso che neanche per un attimo abbia pensato che eri un cattivo compagno, l’avevi avvisata, ti eri preoccupato per lei. E poi la Vecchia Signora che ti ha riportato alla vita ti ha lasciato un messaggio molto chiaro: desiderava che tu vivessi, che rimanessi qui a guardia della sua casa e dei ricordi, di una memoria importante. Ti ha affidato un compito e tu devi portarlo avanti. Lo so, non è facile. Il dolore è sempre in agguato e a volte sembra insopportabile, ma fa parte della nostra vita insieme alle cose belle. Tu sei un gatto non comune, sei buono e generoso, coraggioso e leale e io ti voglio molto bene, per quello che può valere. Vorrei solo che tu ti convincessi che oltre al dolore nella tua vita ci possono essere ancora cose belle e positive. Come la nostra amicizia. Per me è importante, amo i tuoi racconti, le cose che facciamo insieme. E credo che piacciano anche a te. Non essere troppo severo con te stesso, non lo meriti, credimi. –
La lucertola guardò Majakovskij negli occhi per un lungo istante e le sembrò di vedere una piccola luce in fondo al buio del suo sguardo. Poi si voltò e scomparve nell’orticino.
Il gatto restò solo nella grande casa vuota e silenziosa. Ripensava alle parole della lucertola. Non poteva negare che ci fosse del vero in quello che diceva, ma le ferite bruciavano ancora, le immagini erano ancora vive nella sua memoria, il dolore palpabile e a tratti insopportabile.
E l’ultimo episodio, lì giù nell’officina, la lotta mortale con il vecchio topo, aveva riportato alla sua mente tutte le fasi di quella terribile notte. Majakovskij era stremato, non riusciva ad essere lucido. I pensieri e i ricordi si accavallavano nella sua mente impedendogli qualunque pensiero logico. Anche il sonno tardava ad arrivare, così rimase sulla poltrona in uno strano dormiveglia per il resto della notte.
L’alba lo svegliò con il primo raggio di sole che filtrava dall’imposta sconnessa. Il gatto si stirò cercando di liberarsi dal torpore. Uscì subito sulla terrazza e istintivamente guardò verso il muretto per vedere se c’era la piccola lucertola, ma lei non c’era. Gironzolò per l’orticino, annusò i vasi da fiori vuoti e poi si distese al sole di fronte alla montagna. Aspettava, non sapeva neanche lui bene cosa. Passarono le ore, il gatto si sentiva inquieto. Andò a caccia di qualcosa da mettere sotto i denti vicino ad un cassonetto nel vicolo. Mangiò senza voglia, era distratto, assente. Tornò sulla terrazza, un’occhiata circolare e si distese di nuovo, ma le sue orecchie dritte rivelavano che era in costante tensione, pronto a cogliere il minimo rumore.
A poco a poco il sole tramontò dietro la montagna, l’aria si fece gelida e il gatto rientrò in casa. Cercò di non pensare, non voleva pensare. Ispezionò la soffitta dove non andava da tempo nella speranza di distrarsi con qualcosa di interessante, ma nulla attirò la sua attenzione e se ne tornò al primo piano nella stanza della Vecchia Signora, sulla solita poltrona. Chiuse gli occhi e sperò che il sonno lo venisse a salvare da quello strano stato d’animo in cui si trovava, sospeso tra la sofferenza e l’indifferenza, con una sottile angoscia che gli attanagliava il cuore.
Passarono diversi giorni, l’inverno era ormai alle porte, le giornate si accorciavano, le notti erano interminabili. Ogni mattina Majakovskij usciva sulla terrazza e cercava con gli occhi la piccola lucertola, ma lei non era più comparsa da quel giorno.
Il gatto dovette ammettere che la sua piccola compagna gli mancava. Gli mancava la sua vivacità, le mille domande, l’entusiasmo, la voglia di vivere e, sì, l’affetto che gli manifestava. Era l’ultima delle cose che avrebbe voluto ammettere con sé stesso, ma era così. Improvvisamente la solitudine, tanto a lungo cercata e testardamente perseguita, cominciava a pesargli. Risentiva le parole della lucertola, ripensava al suo passato, a Lily, alla Vecchia Signora che con tanto amore lo aveva strappato alla disperazione. La verità era che in fondo voleva vivere e non solo sopravvivere in quella sorta di limbo solitario che si era creato. Desiderava ancora correre su un prato inseguendo una farfalla o rotolarsi nell’erba fresca di brina o sentire una carezza lisciargli il pelo. Ma soprattutto si rese conto che voleva qualcuno con cui condividere tutto questo, un amico vero, una creatura capace di amarlo e di farsi amare da lui, sempre che fosse ancora in grado di amare qualcuno. Almeno ci avrebbe provato e questo era già un grosso risultato.
Uscì sulla terrazza, questa volta non si guardò intorno, ma puntò direttamente nell’orticino, verso la fenditura del muro nella quale aveva visto scomparire la piccola lucertola. Annusò a lungo, emise un miagolìo acuto, poi un altro e aspettò. Niente. Allora con la zampa cominciò a grattare sul muro, le unghie affondate nell’intonaco scrostato che cercavano di allargare la fenditura. Niente. Si fermò a pensare cos’altro poteva fare. Ma dove diavolo si era cacciata quella pestifera bestiolina? Emise un altro lungo, profondo miagolio. Sembrava una richiesta di aiuto, ma lui non lo avrebbe mai ammesso.
– Ciao, cosa stai cercando di fare alla mia casa? – lo sorprese una voce alle sue spalle.
Majakovskij si volse di scatto e si trovò davanti la piccola lucertola che lo guardava con i suoi occhietti penetranti. Gli sembrò di scorgere l’ombra di un sorriso in fondo ed essi.
– Ti cercavo – disse – non ti sei più fatta vedere.
– Sì, l’ho fatto di proposito. Avevi bisogno di pensare, credo – rispose la lucertola guardandolo dritto negli occhi, quegli occhi bellissimi che per la prima volta vide limpidi, chiari come l’acqua del ruscello a primavera.
– Ho pensato molto – disse Majakovskij sostenendo il suo sguardo. – Credo che tu abbia ragione – continuò – Il passato non si può cambiare, ma la vita deve continuare. Non so ancora bene come fare, vuoi aiutarmi? Pensi di volermi ancora come amico?
La piccola lucertola lo guardò a lungo. Poi sorridendo gli rispose:
– Sì, tu sei e sarai per sempre il mio amico del cuore.
La vecchia grande casa sembrava dormire sotto la coltre del tempo e della polvere, ma le sue stanze e i suoi corridoi risuonavano dei passi e delle risate dei due amici che ne avevano fatto il loro regno riportandola ad una nuova vita. E alla fine di ogni giornata, stanchi per le scorribande e le avventure, si addormentavano sulla poltrona della Vecchia Signora, insieme, la piccola lucertola teneramente al sicuro tra le calde zampe di Majakovskij.