Era giunto nel pomeriggio di un venerdì 17, avvolto dalla fuliggine metafisica di una nebbia boreale, con l’espressione precaria dell’esule predestinato, trascinandosi dietro, come ceppo di galeotto, un voluminoso baule con le cerniere irrimediabilmente sigillate da una ceralacca di muschio, nell’esatto momento in cui le campane suonavano a distesa e dal portale della cattedrale s’incamminava la processione di Santa Lucrina.
Quella processione era stata organizzata per chiedere alla Santa il favore della pioggia, perché da settimane imperava, in tutta la regione, un sole caraibico e fuori stagione, che aveva prosciugato le ossa degli uomini ed essiccato i raccolti.
Così, come era doveroso, in pompa magna e nell’assolo festoso delle campane, Santa Lucrina aveva lasciato l’altare per la trasferta in paese, in modo che potesse constatare con i propri occhi i danni molteplici, ed irreparabili, causati da quella siccità improvvisa e progressiva.
E porci rimedio, come era suo obbligo.
Giustina Nepanto, che procedeva accanto al prete alla testa della processione dondolando ritmicamente l’aspersorio, fu assalita da un brivido cupo quando, alzando gli occhi, incrociò quelli di Victor Galeno (che so per certo esser questo il nome dello straniero) ed immediatamente stabilì che l’uomo apparteneva alla stirpe negletta dei sonnambuli.
Cercò un nesso tra l’uomo e la sua recente visione notturna, di quelle mani affannate che scavando la terra dissotterravano un asso di bastoni.
Poi la visione si era interrotta a causa di un singhiozzo continuato che le aveva impedito l’approfondimento di quella premonizione.
E forse non c’era alcun nesso.
Magari l’uomo era capitato per caso, un profugo o un fuggitivo, un condannato dal sonnambulismo all’isolamento, in quell’enigmatico stato sensoriale di percezioni prive di sogni.
L’uomo si era accostato al lato della strada mentre la processione proseguiva salmodiando verso l’interno del paese, con la statua della Santa ondeggiante sulle spalle dei portatori.
Non pioveva da settimane, il suolo, piagato dalla virulenza della siccità, mostrava la corruzione della superficie che diramava nella secchezza delle crepe per culminare nel disossamento degli arbusti, mentre un sole allucinato incendiava le sterpaglie.
Non solo Santa Lucrina, patrona della sacralità delle promesse, aveva l’obbligo morale di porre fine al disastro in atto, ma l’intero paese si era coeso imponendo a Giustina Nepanto, di professione veggente, e a don Apollinare, di professione prete, di sotterrare l’ascia di guerra per dar vita ad una tregua collaborativa dove ognuno avrebbe messo in campo il proprio credo e le proprie capacità, perseguendo l’obiettivo comune di sollecitare la pioggia.
Sinergia inusitata, mai sperimentata prima, che don Apollinare e Giustina Nepanto da sempre si guardavano in cagnesco, arroccati nei propri convincimenti, disputandosi le anime dei vivi e quelle dei morti, l’uno avvalendosi della parola divina, l’altra facendo leva sulla persuasione.
Sta di fatto che l’indovina azzeccava spesso, e con successo, le sue ipotesi, a scapito dei sermoni roboanti del prete, che s’incentravano per lo più sulla minaccia dell’inferno e le blandizie del paradiso, iattura o premio a lungo termine che non trovavano mai riscontro pratico nell’immediato.
Nulla di quello che don Apollinare pronosticava dal suo pulpito accadeva: l’ira apocalittica di Dio tardava a manifestarsi così come la sua perfettissima giustizia, al contrario delle utili e ponderate premonizioni di Giustina Nepanto con le quali, quasi sempre, sembrava poter influire sui destini già decisi.
Victor Galeno, alla ricerca di una tregua dalla calura, si era addentrato nella cattedrale deserta dove il calore delle candele era opprimente quasi quanto quello del sole feroce che penetrava le vetrate a colludersi col trasudo boreale, appannando in un vapore fitto e tiepido, la navata ed il coro e l’altare maggiore, fino a lambire il trittico degli Angeli Implumi, con le ali appassite dalla pesantezza dell’eternità, e soffocare l’allodola consacrata a Santa Lucrina, prigioniera nella sua gabbia di ferro.
Victor Galeno, che nulla sapeva dei santi, e tanto meno gli interessava saperne, liberò l’allodola che stava asfissiando, stordita dai miasmi dell’incenso e dei gigli appassiti, e dagli effluvi aggiuntivi della nebbia boreale.