MI guardo intorno. La stanza è in penombra, squallida. Armadi metallici, scrivania di lamiera grigia ricoperta di plastica verde. Plafoniera al neon che ogni tanto lampeggia.
Guardo gli uomini vicino a me: un agente di polizia alla macchina da scrivere, un altro che interroga. Una stella e una corona sulla spallina, non mi è mai capitato di avere a che fare con uno così. Cosa sta succedendo?
Cazzo, ha visto che mi sono soffermato sui gradi. Oh, merda!
«Hai ragione ce l’hai proprio nel culo, stavolta!»
Ok, mi hai beccato, posso solo far finta di niente.
«Non fare l’imbecille, Ahmed! So benissimo che mi capisci!»
Non mi chiamo Ahmed, lo dice solo per provocarmi. Mi conviene stare ancora zitto. Il vantaggio quando ti interrogano questi pezzi grossi è che invece di sbatterti in testa quel grosso elenco telefonico ti insultano. Imbecilli! Lo svantaggio è che…
Si alza, guarda il suo collega che sorride sotto i baffi (non ha i baffi). Ha un gesto d’impazienza, non sa bene cosa fare. Si sta spazientendo, devo tenerlo buono, altrimenti…
«E’ l’ultima volta che te lo chiedo con le buone: cosa cazzo ci facevi in via Garibaldi alle… « consulta i suoi fogli, «alle 18,15 di ieri?»
MI schiarisco la voce.
«Signor commissario…» mormoro.
«Commissario capo», mi interrompe l’agente guadagnandosi un’occhiataccia da parte del superiore.
Cazzo!
«Mi scusi, signor commissario capo…»
«Allora?»
«Mi avete fermato con la borsa di quella signora in mano, ma non l’ho rubata, l’avevo solo raccolta da terra.»
Tic tic tic della macchina da scrivere.
«A duecento metri dal punto del furto?»
«Il ladro l’ha lasciata cadere lì», provo a dire.
Il commissario capo si siede davanti a me.
«Ricominciamo da capo: come ti chiami?»
«Sekou Balewa, signor commissario capo»
«E piantala con il commissario capo! Senza documenti, immagino.»
Allargo le braccia.
«Me li hanno rubati».
«Come no! E dove abiti?»
Lo guardo con aria triste e non rispondo.
«Scrivo senza fissa dimora?» chiede l’agente.
«Scrivi quello che vuoi!», poi, rivolto a me: «lo sai perché sei qui?»
«Sono accusato del furto di quella borsa?» azzardo.
«E del ferimento della signora: è caduta e si è rotta il femore».
«Mi dispiace, ma io…»
«Tu non hai capito un cazzo!»
Mi si fa più vicino, mi sputa quasi in faccia.
«Lo sai perché io sono qui? Lo sai perché tocca me condurre l’interrogatorio a un negro di merda che mi prende per il culo? Ma te lo spaccherò, il culo!»
E’ veramente incazzato. Non so cosa sia successo ma mi rendo conto di essere nella merda. Resto in silenzio, ma questa volta non so davvero cosa dire.
«Lo sai chi era quella signora a cui hai strappato la borsa?»
Ah, ecco il punto!
«No…» ,mormoro, «come…»
«Era la madre del sottosegretario agli Interni, ecco chi era! Così adesso mi tocca perdere la serata a sentire il tuo puzzo di fogna!»
Sono ammutolito. Adesso ho paura.
«E lo sai cosa ti succederà? Io continuerò ad insistere, tutta la notte se è necessario, e anche domani, e tu continuerai a negare tutto. Nessuno ti ha visto, lo sai perché te lo dico?»
No, non lo so. Scuoto la testa.
«Te lo dico perché mi sono rotto i coglioni di gente come te! Tu pensi che alla fine ti sbatteranno in galera e ti processeranno. Così il tuo avvocato patteggerà una pena minima e ti rimanderanno fuori, come le altre volte. Ma non sarà così».
Cosa vuole dire?
«Signor commissario…» comincio, ma lui mi interrompe subito.
«Sai cosa ti succederà, invece? Ti metteremo su un aereo militare e ti scaricheremo in un campo in Libia, con qualche parola di raccomandazione ai custodi, perché sappiano cosa fare di un rifiuto come te!»
Mi alzo di scatto, mi attacco alle sue mani. L’agente si alza per intervenire, ma il capo gli fa un cenno. Mi spinge di nuovo sulla sedia. Mi guarda.
«Lo so che lo fai per campare, Sekou o come cazzo ti chiami, non ce l’ho con te».
Certo che non ce l’ha con me, deve fare il suo lavoro. Non ho bisogno di far finta di essere terrorizzato.
«La prego, signor Commissario, mi aiuti…»
Si rialza, si gira dall’altra parte, fa finta di pensare.
«Questo è un paese civile», dice, «anche se ormai è pieno di merda come te. Ma non siamo assassini, vogliamo solo che i crimini siano puniti e che i delinquenti vadano in galera. E che ci restino».
Ho capito dove vuole arrivare, in gamba il tipo. Abbasso gli occhi.
«Ha ragione, signor commissario, mi dispiace».
Fa un cenno al dattilografo.
«Allora ricominciamo: dove eri ieri, 14 di aprile alle 18,15? E cosa hai fatto?»
«In Via Garibaldi», dico, le spalle basse, guardando per terra, «ho visto quella signora che camminava piano e teneva la borsa con una mano, e…».
L’interrogatorio è finito. Ho confessato, mi aspetta una condanna, severa perché quella era parente di una persona importante. Spero solo che non muoia, con i vecchi non si sa mai. Sì, andrò in gabbia, ma almeno sarò ancora vivo.