L’aria nel locale era saturo di fumo e dell’odore acido del vino di pessima qualità. Alcune persone giocavano a dadi in un tavolo d’angolo, e la foga del gioco li faceva ogni tanto esplodere in esclamazioni di gioia e altrettanto spontanee bestemmie.

«Quello che non capisco, Liborio» disse l’amico «è perché un uomo della tua posizione si ostini a venire in letamai come questo!».
«Ragazzo caro» rispose l’altro «a chi stai parlando? Al nobile, all’avvocato, al massone?».
«Credevo di parlare al ministro di Francesco II…».
«Quello a cui il buon re, in partenza per Gaeta, disse: “Don Libò, guardat’u cuollo”» rise Liborio, facendo cenno alla cameriera di portare un altro boccale di vino.
La ragazza sorrise e volò in cucina.
«Lo sai che questa Elsa te la puoi fare quando vuoi?».
«Eh, fosse così facile! Vedi, tu che non sei nessuno puoi allungare una mano e toccarle il culo, poi, se lei ci sta, portarla di sopra…».
«Se lei ci sta? Ma la conosci? Quella per cinque monete…».
«Va bene, va bene!» sbottò Liborio, riempiendo il bicchiere, tu rovini tutto: era solo un esempio!».
«Vai avanti».
«Dicevo che tu puoi fare quello che vuoi, ma se io tento di fare lo stesso stai sicuro che tra questa massa di infingardi e manutengoli che sembrano occupati solo ad affogarsi nel vino spuntano tre o quattro spie che vanno subito a riferire: “Sapete cosa ha fatto Liborio Romano? È andato con…”».
«Hai paura di sputtanarti» concluse l’amico.
«Con le puttane ci si sputtana, no? Mi sembra giusto!».
Entrambi scoppiarono a ridere di gusto. Nel frattempo fece ritorno la cameriera, che si chinò per posare la brocca di vino sul tavolo, mostrando una generosa scollatura.
«I signori stavano parlando di me?» chiese, maliziosa.
«Ha anche orecchie di lince!» esclamo il ragazzo. «Sei libera stasera, Elsa?».
«Più tardi, dopo il servizio, sì» rispose lei «per te o per questo bel signore? O per tutti e due?».
Liborio sollevò gli occhi al cielo.
«Solo per me» disse Renzo «il mio amico non so se…» e non terminò la frase.
La ragazza rise, portandosi una mano davanti alla bocca, e si allontanò sculettando.
«Sai che questo ti costerà caro, vero?» disse Liborio.
«Quanto caro?».
«Vediamo un po’: potrei farti impiccare, ma credo che mi limiterò a farti pagare questa brocca di vino».
«Esagerato! Hai ancora tutto questo potere dopo che Garibaldi è caduto in disgrazia?».
«Sono pur sempre ministro degli interni a Napoli in questo ‘61. E vedrai che alle prossime elezioni sarò eletto in Parlamento».
Renzo ne fu impressionato.
«Dunque i piemontesi ti hanno perdonato la tua amicizia con l’Eroe dei Due Mondi?».
«Questo e altro. Cosa vuoi che la politica non perdoni, quando fa comodo? Quello che non perdoneranno mai sarà la denuncia delle loro ruberie».
«Cosa intendi dire?»
Liborio si sporse in avanti sul tavolo. I suoi occhi adesso avevano perso tutta l’ilarità della conversazione precedente.
«Lo sai quanto i Savoia hanno rapinato al Regno delle Due Sicilie? Quanto oro, quanti soldi, quanti macchinari hanno portato al nord? Quante fabbriche hanno fatto chiudere, come il Reale Opificio di Pietrarsa, quanti operai sono diventati dei cenciosi disoccupati, quante tasse fanno pagare, quanti ragazzi portano via alle famiglie per le leve?».

Sbigottito da quell’improvvisa veemenza, Renzo non si era neanche accorto della figura possente che si era approssimata al tavolo, coprendo con la sua mole la luce delle lampade, ma la sua presenza non sfuggì a Liborio.
«Vuoi essere anche tu della partita, Luigi?».
Renzo si voltò e guardò dal basso in alto il nuovo venuto, poi si volse di nuovo verso l’amico.
«Non lo riconosci?» lo incalzò questi.
«No… io..» Renzo si voltò di nuovo verso l’uomo, che ostentava una grande barba nera e dei lunghi baffi. «Aspetta un momento… ma…».
«Eh sì» rise Liborio «ti presento il nostro amico Chiavone, combattente per la causa di Francesco II e brigante secondo i nostri amici piemontesi».
«Che possano crepare tutti!» esclamò il brigante con voce stentorea.
«Diciamo che per questo tu fai del tuo meglio» disse Liborio, invitandolo a sedere con loro.
«Non hai para che le spie di Cavour ti vedano con me?» chiese il brigante.
«Cavour sa benissimo come la penso, e a lui viene comodo che io sappia dare un colpo al cerchio e uno alla botte. E poi qui siamo nello stato pontificio, che Dio preservi Pio IX».
«Cosa stavi dicendo a proposito delle ruberie?».
Librorio si rilassò con uno sguardo amaro.
«È bastato fare due conti: prima dell’annessione il Regno delle Due Sicilie aveva 445,2 milioni di lire in oro, il Regno del Piemonte 27, il Papa 35,3, tutti gli altri stati italiani messi insieme arrivavano a poco più di 150 milioni. In un solo anno i Savoia hanno prelevato dalle casse del Regno 80 milioni facendone sparire la metà…».
«Eppure tu ti sei accordato con Cavour…» intervenne Renzo.
Liborio sospirò.
«Nessuno può accusarmi di essermi messo in tasca un lira, ma la politica non si fa con le buone intenzioni: la si può fare con il cervello, come Cavour, o con il cuore, come Garibaldi, e io sono più portato per il primo».
«Io invece per il secondo!» tuonò Chiavone.
«Chi non ammira Garibaldi?» gli fece eco, Renzo, affascinato dalla fisicità del brigante.
«Il problema» ribatté Liberio sornione, «è che seguendo troppo il cuore si va incontro ad amare disillusioni».
«Giuseppe Garibaldi non si arrenderà mai!» sbattè il pugno sul tavolo Chiavone «io stesso marcerò su Torino e metterò Francesco II sul trono di Vittorio Emanuele!».
«Hai idea di quante miglia ti separino dal Piemonte?».
«Non importa!» disse il brigante senza un attimo di esitazione «come loro sono venuti giù, noi andremo su!».
«Non ero di questo, comunque, che volevo parlare, a proposito delle disillusioni dell’Eroe: la sapete quella di Giuseppina Raimondi?».
L’improvvisa digressione di Liborio Romano spiazzò i suoi due compagni, che rimasero a bocca aperta.

«Dunque» continuò il politico «ai tempi della Seconda Guerra d’Indipendenza Garibaldi aveva i suoi problemi… diplomatici con la gerarchia dei Savoia, come al solito, ma aveva anche altro a cui pensare. Si era innamorato della marchesina diciottenne Giuseppina Raimondi. Lui aveva passato i cinquanta, ma era comunque “l’Eroe dei due mondi”. E lei, soprattutto, era segretamente incinta di uno dei suoi due amanti. Garibaldi la chiese in moglie e le nozze furono fissate in gran fretta per il 6 gennaio del ‘60, ma al momento di celebrarle insorse un problema…».
«Fu richiamato a combattere al fronte?».
«Mhm… no: uno dei due amanti si presentò in chiesa, durante la cerimonia, e gli consegnò una lettera in cui raccontava tutta la verità. La marchesina non osò negare e Garibaldi, in pubblico, la abbandonò dicendo: “Signora, voi siete una puttana!”. Poi scomparve dalla vita politica.».
«Ahaha!» rise il Chiavone, tanto rumorosamente da attirare l’attenzione di tutto il locale «lo credo bene!».
«Non si può dire che questo fatto abbia giovato alla sua fama: non mi sorprende che abbia desiderato tenerlo nascosto».
«Già» commentò Liborio. Poi, rivolto ad Enzo:
«A proposito, sai perché il nostro amico Luigi è soprannominato ‘il Chiavone’?.
«Be’…» fece il ragazzo, occhieggiando il brigante.
«Niente di tutto questo!» rise ancora Liborio, alzando il bicchiere, «è soltanto perché da bambino lo facevano girare con la grande chiave di casa appesa al collo, per non perderla!».
«Senza offesa per la tua vigoria, naturalmente!» si affrettò ad aggiungere.

Il Chiavone non rispose e si unì al brindisi. Fuori la notte si era fatta sempre più scura ed era tempo che i compagni si separassero: il brigante doveva riprendere la via dei suoi boschi prima che albeggiasse e Liborio Romano doveva tornare l’indomani ai suoi uffici, dove le imboscate dei suoi avversari non erano meno temibili di quelle dell’esercito piemontese.

Quanto a Renzo, nessuno sa cosa fece, e la storia non dice.