Lungo la costa il vento soffiava implacabile come sempre, facendo sbattere le imposte della casa contro i loro fermi. A tratti le raffiche si producevano in autentici ululati, che si perdevano lontano con echi sinistri. D’un tratto ci fu un tambureggiare ripetuto contro la solida porta di quercia, come se qualcuno la percuotesse con le nocche di mille mani contemporaneamente.
Con uno scatto l’uomo posò sul divano il libro che stava leggendo e si alzò.
«No, Michele, no…».
L’avvertimento arrivò troppo tardi. Come ebbe liberato il catenaccio il vento spalancò la porta e un violentissimo scroscio d’acqua lo inzuppò  da capo a piedi.
Nel frattempo la moglie era balzata in piedi e appoggiandosi dall’interno lo aiutò a richiudere.
«Ma..ma…ma» biascicò Michele, voltandosi verso i figli che avevano guardato la scena con gli occhi spalancati. I capelli lunghi erano incollati alla fronte, la camicia era zuppa e i pantaloni sgocciolavano sul pavimento di pietra come se l’uomo fosse appena uscito dalla vasca da bagno.

Vedendolo così, immobile al centro della stanza e inebetito, Rachel non riuscì a nascondere un sorriso dietro le mani che le coprivano la faccia, e i due bambini esplosero in una allegra risata.
«Vedo che trovate tutto molto divertente!» esplose Michele, rivolto alla moglie.
«Perdonami, caro, ma non sono proprio riuscita a trattenermi» si scusò lei, senza smettere di ridere.
Michele si voltò esasperato verso i bambini, ma riuscì a trattenersi in tempo.
«Vado a cambiarmi!».
«Dai, non te la prendere» lo inseguì lei, «lo sai che il vento del sud porta l’acqua».
«Il vento del sud porta l’acqua, quello del nord un freddo dell’inferno, quello dell’est…».
«Bastava che non aprissi la porta…».
«Fanculo te e questo posto!» disse, avviandosi verso la scala che portava al piano di sopra.
Rachel lo guardò salire i gradini a due a due, lasciando chiazze d’acqua sulla scala di legno.
«Papà scherzava» disse, rivolta ai bambini.
«A me sembrava che avesse detto una parolaccia», azzardò il più grande, Robert, che aveva già compiuto dieci anni.
In quel momento crepitò un fulmine, e la casa piombò nel buio.

Ci fu un attimo di silenzio, mentre la luce dei lampi filtrava dalle imposte e il rumore dei tuoni faceva tremare le pareti di legno.
«Sta arrivando il temporale. State fermi, ragazzi, che cerco le candele».
Dopo alcuni istanti, facendosi luce con il cellulare, Rachel ritorno con tre candele, che accese dalla brace della stufa a legna.
Dall’alto venne il rumore di oggetti che rotolavano e il suono di una bestemmia.
«Michele, ti sei fatto male?».
«Porc… Mi sono inciampato nell’appendiabiti».
«C’era anche prima».
«Sì, ma con la luce vedevo dove era!».
«Hai bisogno di una candela?».
«No, ho quasi finito, faccio luce con la torcia. Tieni le candele per dopo, non so quanta mancherà la luce in questo maledetto posto!».
Rachel sospirò: anche se suo marito non era una persona a cui le arrabbiature durassero molto, doveva ammettere che quella di venire a fare le vacanze a Coney Island, nella contea di Sligo, propaggine nord occidentale dell’Irlanda del sud, proprio in faccia alla Groenlandia, seppure a duemila chilometri di distanza, non era stata una buona idea. Michele non sopportava quel clima perennemente imbronciato, le continue piogge, il tempo che cambiava ogni mezz’ora, e nonostante i bambini fossero entusiasti della vita all’aria aperta e avessero immediatamente fraternizzato con gli animali della fattoria allo stato brado e con i cavalli che venivano a mangiare gli zuccherini dalle loro mani, facendo enormi sforzi con i dentoni per raccoglierli con delicatezza dalle manine, diventava più irritabile ogni giorno che passava. Il fatto era che per lui, italiano del sud, fare le vacanze significava abbronzarsi, nuotare, passare le serate al bar con gli amici, e non riusciva a digerire la solitudine che permeava quei posti. Lei, d’altra parte, che a Sligo era cresciuta, sentiva da sempre nostalgia per quelle che considerava le sue radici e aveva tanto insistito per tornarci che alla fine lui aveva dovuto cedere. Certamente, dopo quella esperienza sarebbe stato difficile convincerlo ancora.

Finalmente Michele scese dalla scala. Aveva indossato una tuta e sopra si era messo una vestaglia a quadretti che lei gli aveva regalato a Natale: un segnale di distensione?
Poiché mancava la corrente e non aveva potuto asciugarsi i capelli con il phon si era messo in testa un cappellino di pile con la visiera: il tutto faceva molto old america.
Le candele erano state disposte sul tavolo, a parte una che Rachel aveva messo dall’altra parte della stanza, sopra il camino, per illuminare quegli angoli.
«Cosa dici, accendiamo il fuoco?» chiese Michele.
«La legna è nella baracca fuori» rispose lei.
Michele guardò le finestre imperlate di gocce d’acqua che erano penetrate attraverso gli scuri.
«Vabbe’, non fa freddo» disse.
Adesso era seduti tutti e quattro nel vasto piano inferiore della villetta. La stufa in ghisa mandava un tenue bagliore arancione, che sembrava diffondere un’atmosfera di calma mentre il vento fuori continuava ad infuriare.
«Cosa facciamo?» chiese Robert, il figlio più grande «la tv non funziona?».
«Senza luce non va» rispose la madre.
«Ma l’aggiusteranno?».
I due genitori si guardarono: «Con questo tempo ho paura di no. Temo che il fulmine abbia bruciato qualcosa».
«Allora cosa facciamo? Mi racconti una fiaba?».
Rachel ripensò freneticamente alle favole che aveva ascoltato da bambina, ma a parte quelle classiche non ne ricordava assolutamente altre.
«Be’» cominciò «potrei provare con quella di Pollicino…»
«Ma la so già» protestò il piccolo.
«Allora…».

Una serie di colpi battuti alla porta fece trasalire tutti.
«Stavolta vai tu ad aprire» disse Michele, ammiccando.
«Guarda che è qualcuno che sta bussando».
«Io ho già dato».
Scocciata, Rachel si alzò e andò ad aprire, badando bene di tenersi al riparo per non fare la fine del marito ma cercando anche di capire chi fosse stato a bussare. Era ormai sera, e nonostante che le giornate così a nord fossero molto lunghe, il cielo coperto da nuvole scure sembrava quasi notturno.
«Chi è?» chiese, aprendo soltanto uno spiraglio, senza togliere la catena.
«Sono un vostro vicino» rispose la voce profonda di un uomo, «abito a Oyster Island, ma il temporale mi ha sorpreso qui. Posso entrare?».
Rachel richiuse la porta per togliere la catena e poi l’aprì quel tanto da far entrare lo sconosciuto, stando però attenta a non lasciarsela sfuggire di mano. L’uomo si infilò di traverso nella fessura e scivolò dentro, togliendosi subito il mantello e il largo cappello che l’aveva riparato dalla pioggia, rivelando il volto affilato di una persona di mezza età, con un naso aquilino, labbra carnose e una gran massa di capelli bianchi.
Si guardò intorno e fece un debole sorriso.
«Taing airson mo fhosgladh» disse.
Michele e i bambini lo guardarono ad occhi spalancati, ma Rachel sorrise, facendosi dare mantello e cappello.
«Anns an t-sìde seo b ’e an rud as lugha a b’ urrainn dhomh a dhèanamh» rispose.
Lui spalancò a sua volta gli occhi: «Lei parla gaelico!» esclamò.
«Sono cresciuta da queste parti».
«È Meraviglioso. È tornata a vivere qui con la sua famiglia?».
Il visitatore era tornato all’inglese, e come capì quello che aveva detto Michele fece una faccia strana.
«No, no» si affrettò a rispondere Rachel, «siamo solo qui per una breve vacanza».
«E un ritorno alle origini, no?» sorrise l’uomo.
Rachel arrossì: «Sì, anche questo».
«Ma perdoni la mia scortesia. Mi chiamo William…» disse lui, allungando una mano sottile.
«Piacere, Rachel. E quelli lì» disse, accennando agli altri sul divano «sono mio marito Michele e i miei figli, Robert e Luigi».
«Buongiorno, Michele. Ciao Robert, ciao Luigi» fece, con un piccolo inchino.
Michele si alzò e gli si fece incontro, stringendogli la mano.
«Piacere. Brutta giornata per camminare, vero?».
«Quando mai qui non piove?» disse William, alzando le spalle.
Michele fece un gesto verso sua moglie, che rispose con una smorfia.
«Ma la prego, si accomodi. Gradisce una tazza di tè? Purtroppo è andata via la corrente, ma il bollitore è sulla stufa».
William ringraziò con un cenno del capo e si sedette su una sedia vicino alla stufa, tirando un respiro.
«Freddo?» chiese Rachel, versando l’acqua bollente nella teiera.
L’uomo sembrava soprappensiero, come fosse incantato dalle candele, ma si riscosse subito.
«Come? Ah, no, grazie, sto bene».
«Mi dispiace che non abbiamo dolci» fece Rachel, subito entrata nella parte «ma forse qualche biscotto dei bambini…».
«No, grazie, anzi…». William si alzò, andò dall’appendiabiti dove era il suo mantello e si mise a rovistare in una delle tasche interne.
«Ecco» disse, porgendo a Michele una fiaschetta di metallo piatta, ma dalle dimensioni notevoli «vuole assaggiare?».
«Cosa è?».
«Assaggi».
Michele svitò il tappo e avvicinò il naso: «Whisky?» chiese, passando la bottiglia alla moglie.
Rachel annusò a sua volta, poi si alzò, tirò fuori tre bicchierini da una credenza e li dispose sul tavolo, versandone una buona dose in ognuno.
«Bushmills?» chiese, dopo averne bevuto un sorso.
Un largo sorriso si dipinse sul volto di Williams: «Chì thu gur e fìor Èireannach a th ’annad!» esclamò, alzando il suo bicchiere per brindare.
«Mi ha detto che sono una vera irlandese» spiegò Rachel, rossa in viso, al marito, che la guardava con aria interrogativa.
«Dove ha detto che abita?» chiese Michele in italiano.
«A Oyster Island» rispose lei in inglese.
«Quell’isoletta qui davanti?».
«Già. Sarà un problema arrivarci stasera, ci deve essere un mare pauroso».
Michele rifletté un attimo: «Potremmo chiedergli se vuole fermarsi qui».
Rachel lo guardò, grata che fosse stato lui a proporlo.
«William» chiese «le farebbe piacere trascorrere qui la notte, in attesa che il tempo migliori?».
«Vi ringrazio per la vostra cortesia, ma preferirei rientrare a casa» rispose lui «magari più tardi» aggiunse, dopo un attimo di esitazione.
Ci fu un momento di silenzio un po’ imbarazzato.
C’è qualcosa di strano, di antico, in quest’uomo, si trovò a pensare Rachel mentre sorseggiava l’whisky.

La voce di Robert interruppe quei pensieri: «Cosa facciamo ora?».
«Siamo senza televisione e avrebbe voluto che gli raccontassi una fiaba» si scusò Rachel, «ma io…».
«Se è solo per questo, io ne conosco molte» disse William.
«Davvero?».
«Sì. Volete che ne racconti una? Sarebbe il minimo per avermi accolto in casa vostra!».
Robert batté le mani, subito imitato dal fratellino, che non aveva seguito bene la conversazione.
William si versò ancora un poco di whisky, si prese il mento tra le mani e cominciò a narrare.

«C’era una volta, molto tempo fa, una bellissima dama che viveva in un castello presso Lough Gill, non molto lontano da qui, e si racconta che fosse promessa al figlio di un re, ma proprio prima che potessero sposarsi il giovane fu ucciso e gettato nel lago.
La dama, si dice, uscì di senno per aver perduto il suo amato, e non smise più di piangere per giorni e giorni, e più piangeva e più la sua pelle diventava diafana, come quella di un fantasma. Infine un giorno sparì, e si diffuse la voce che fosse stata rapita dai folletti…».
«Cosa sono i folletti?» lo interruppe Robert.
«I folletti sono piccoli esseri che vivono nelle foreste…» cominciò a spiegare sua madre, ma William la fermò toccandole il braccio.
«C’è chi dice che i folletti siano gli antichi dei dell’Irlanda pagana, i “Tuatha De Danãn”, che, non più venerati e alimentati con offerte, sono andati rimpicciolendosi nell’immaginazione popolare e sono ora alti solo poche spanne» continuò «ma c’è anche chi dice che fossero angeli caduti o dei della terra. Le loro principali occupazioni sono far festa, lottare e suonare la musica più bella, e solo uno di loro si dice sia industrioso, il “leprecano“, il calzolaio fatato».
L’uomo si interruppe un attimo per vedere se il ragazzo avesse ancora delle domande, poi riprese:
«Passato un po’ di tempo, ma non saprei dire quanto, nel torrente laggiù apparve una Trota Bianca. La gente non sapeva cosa pensare, perché non si era mai sentito di trote bianche, ma passarono gli anni e la trota era sempre là, in verità da tanto tempo che non lo ricorda neanche il più vecchio del villaggio. La gente alla fine cominciò a pensare che doveva essere una fata: cos’altro poteva essere? E nessuno osò mai toccare né fare del male alla Trota Bianca.

Un giorno, però, arrivarono a Lough Gill dei soldati, occuparono la taverna e si misero a ridere e cantare disturbando tutti. Venuti a conoscenza del mistero della Trota Bianca risero della gente del posto, la canzonarono e la presero in giro perché credeva in cose del genere, finché uno di loro giurò che avrebbe catturato la trota e l’avrebbe mangiata per cena.

Così, senza pensarci due volte, andò al torrente, acchiappò la trota, la portò nella cucina, si fece dare una padella per friggere e ci ficcò dentro la povera bestiolina. La trota lanciò un grido acutissimo, ma il soldato scoppiò in una risata e la rigirò per friggere l’altro lato, ma, indovinate un po’: non si vedeva neanche l’ombra di bruciato, niente da nessuna parte. Il soldato cominciò a pensare che quella trota che non si riusciva ad arrostire avesse qualcosa di strano, ma aveva scommesso con i suoi amici e non voleva perdere la faccia, così continuò a friggerla sul fuoco. Quando credette che quel lato fosse cotto, la girò di nuovo, ma quella parte non era neanche un briciolo più cotta dell’altra.
“Che dannata sfortuna” disse il soldato, “è proprio il colmo! Ma non l’ho ancora finita con te, mia cara, anche se ti credi tanto furba: forse sei fritta abbastanza, anche se non hai proprio un bel colore; magari sei meglio di quel che sembri, come un gatto scorticato, e dopo tutto sei un buon bocconcino!”,  e così dicendo tirò fuori coltello e forchetta per assaggiare un pezzo di trota; ma appena conficcò il coltello nel pesce ne uscì un grido così terrificante che quasi morì di paura a sentirlo, e la trota saltò fuori dalla padella e cadde in mezzo al pavimento, e nel punto dov’era caduta ecco che si alzò una leggiadra signora, la più bella creatura mai vista, vestita di bianco, con un nastro d’oro fra i capelli, e un rivolo di sangue che le colava dal braccio.
“Guarda dove mi hai ferita, scellerato!”, disse la dama, e gli mostrò il braccio, e, cari mio, quello credette di aver perso il bene della vista.
“Non potevi lasciarmi fresca e tranquilla nel fiume dove mi hai acciuffata” continuò “invece di disturbarmi mentre ero intenta a compiere la mia missione?”.
Il soldato si mise a tremare come un cane in un sacco bagnato, e alla fine balbettò qualcosa, e pregò che gli venisse risparmiata la vita, e chiese perdono alla dama, e disse che non sapeva che stesse svolgendo una missione, e che era un soldato troppo bravo per non aver di meglio da fare che immischiarsi nelle sue faccende.
“Io stavo compiendo una missione”, ripeté la dama, “stavo aspettando il mio amato che mi raggiungerà nelle acque, e se passerà mentre io non ci sono, e lo perderò, ti trasformerò in un piccolo salmone, e ti perseguiterò dovunque e per sempre finché crescerà l’erba e l’acqua scorrerà”.

Il soldato si sentì morire all’idea di essere trasformato in un salmone, e chiese pietà.
“Abbandona le tue cattive abitudini” disse allora la dama ‘”comportati bene per l’avvenire e riportami indietro e mettimi di nuovo nel fiume dove mi hai trovata”.
“Oh, mia signora”, disse il soldato, “come potrei trovare il coraggio di annegare una dama tanto bella come te?”.
Ma prima che potesse aggiungere una parola la dama era svanita, e là, sul pavimento, il soldato vide la piccola trota. Allora la mise in una ciotola piena d’acqua e corse via con quanto fiato aveva in corpo per paura che il suo amato potesse giungere mentre lei non c’era ancora; e corse e corse fino a che arrivò di nuovo al torrente e vi gettò la trota. Nel preciso istante in cui lo fece, per un attimo l’acqua diventò rossa come il sangue, a causa della ferita, fin quando la corrente non lavò via la chiazza; infatti ancora oggi c’è una piccola macchia rossa sul fianco della trota, là dove era stata ferita.
Da quel giorno il soldato divenne un altro uomo: cambiò vita, andò regolarmente in chiesa e praticò l’astinenza tre volte alla settimana, sebbene non mangiasse mai pesce nei giorni di astinenza perché, dopo lo spavento che s’era preso, il pesce non riusciva proprio più a digerirlo.
In ogni caso era diventato un altro uomo, come ho detto, e, passato un po’ di tempo, lasciò l’esercito e da ultimo si fece eremita; e si dice che pregasse sempre per l’anima della Trota Bianca”.

William tacque. Tutti erano rimasti presi dal racconto, che nessuno conosceva, e nella sala si diffuse il silenzio.
«Dai, raccontacene un’altra!» lo pregò Robert.
Ma William si alzò e andò alla porta. Fuori la tempesta si era placata, e anche se i nuvoloni neri incombevano ancora nel cielo ormai scuro aveva smesso di piovere.
«È ora di andare a letto» disse « e io devo ritornare a casa, mia moglie mi aspetta».
«È sicuro di non volersi fermare per la notte?» chiese Rachel, «sua moglie possiamo avvertirla con il cellulare».
«Non ha telefono, e poi il mare non mi fa paura, grazie» rispose, riprendendo il mantello ormai asciutto e il cappello.
«Grazie a lei per la fiaba».
«Domani ritorni a raccontarne un’altra?» lo implorò il ragazzo.
William schiacciò l’occhio e sorrise: «Forse» e uscì nella notte, chiudendo piano la porta.

Rachel e Michele rimasero a guardarsi.
«Eppure mi ricordo qualcuno» fece la donna, guardando il sentiero che si perdeva nel buio lungo il quale William era scomparso».
«Ha detto che viveva qui vicino» disse Michele.
«Già, ad Oyster Island».
Entrambi uscirono sulla porta per guardare nella notte che si era fatta limpida, ma sull’isoletta che sorgeva proprio di fronte a loro non c’era alcuna luce. Solo il rumore dei marosi che s’infrangevano sulla riva rompeva il silenzio.