Non importa l’anno, la stagione e la città in cui si svolge questa storia, che alla fine sono solo dettagli che nulla aggiungerebbero alla trama, così come non hanno importanza neppure i nomi dei protagonisti, (da me ribattezzati con nomi di fantasia) se non fosse per via dell’esigenza immediata del riconoscimento, che non potevo certo scrivere lei lui l’altro, in un modo approssimativo che avrebbe ingenerato confusione.
Così ho scelto i nomi in base alle peculiarità personali, quelle che a me parevano identificative del carattere e della propensione.
…quella sera ero a caccia di stelle, impresa possibile solo ad una sognatrice visto che il mio affaccio confluisce nella finestra della casa di fronte, e il paesaggio che alla vista si dispiega non è quello misterioso della via lattea ma di una tappezzeria presuntuosa, un lampadario monumentale e un pianoforte con sgabello.
Stanza che fino a quella sera avevo immaginato disabitata, con le tende spalancate su un interno vuoto, e invece, con mio grande stupore, nel buio s’è profilata la silhouette di un uomo seduto al pianoforte, le mani in grembo e la testa (una testa possente dai capelli bianchissimi) reclinata sul petto, come stesse dormendo. O riflettendo.
Dopo un lungo tempo l’uomo si è scosso, ha sfiorato con le mani i tasti, si è alzato ed è uscito dalla stanza.
Cercavo le stelle ed ho trovato un pianeta.
Un mondo abitato laddove immaginavo un deserto.
Questo ho pensato quando la stanza è tornata di nuovo vuota.
Paziente, ho atteso ancora alla finestra un nuovo ingresso dell’uomo, ma non è accaduto.
Così le sere successive.
E già perdevo interesse alla storia quando di nuovo si è replicata la stessa coreografia, ma più nitida, cosicché ho capito che l’uomo seduto con la testa reclinata sul petto non stava affatto dormendo né congetturando, ma fissava il coltello che gli giaceva in grembo. Poi si è alzato, ha sfiorato i tasti con una carezza sporca di sangue, ed è scomparso oltre la soglia buia.
Mi sono affannata a raccimolare notizie al riguardo del mio misterioso dirimpettaio, ma a quanto pare nessuno lo conosceva e pochi lo avevano visto. Il Maestro (così, con ironia e diffidenza, l’avevano appellato per via del nome difficile e straniero) in quell’appartamento non ci abitava in pianta stabile poiché spesso era in tournée. Nessuna confidenza, non rispondeva neppure ai saluti, forse era sordo o solo arrogante, con la spocchia dei ricchi seppur ricco non doveva essere se abitava in una di queste nostre topaie, Si mormorava portato sul lastrico da un divorzio sfavorevole, una ex moglie che lo aveva dissanguato, forse quella bruna favolosa, una donna di gran classe che una volta era giunta fin qui a cercarlo.
Di Ludwig, (così chiamerò d’ora in poi il Maestro, per le vere, o presunte, attinenze con Beethoven) quindi, poco o nulla si conosceva, ed io non avevo di certo le credenziali per irrompere nella sua vita ad indagare. Così mi sarei dovuta accontentare dei fotogrammi proiettati all’interno di quella stanza.
Pazientemente mi sarei predisposta all’attesa della visione privata del prossimo spezzone di pellicola.
…e non ho dovuto aspettar poi molto che gli intervalli, tra un tempo e l’altro, erano diventati sempre più brevi, come se il regista, accortosi di me, unica ma attenta spettatrice, accelerasse i tempi del racconto affinché non mi distraessi e perdessi interesse alla trama, ed allora, con un colpo di scena, nella stanza buia ha materializzato l’ombra sottile di una donna, della quale nitidamente intravedevo la schiena nuda, le braccia, le spalle, il collo, e una porzione di viso, che l’altro lato era nascosto dalla cascata scura dei capelli. La donna, che immaginavo bellissima ed elegante, camminava spedita verso il pianoforte dove poi ha incespicato. Ha perso l’equilibrio ed è caduta. Si è rialzata, infine, con le mani premute sulla bocca a reprimere un grido.
…l’attimo successivo bussavo trafelata alla porta di quell’appartamento.
In compenso, però, si sono spalancate le porte degli altri condomini, qualcuno in pigiama tirato giù dal letto, una donna con un neonato attaccato al seno, un tizio seminudo, a malapena coperto da un’ asciugamano, scaraventatosi fuori dalla doccia.
Ne è conseguito un gran bailamme, che tutti volevano sapere cosa stesse succedendo e perché m’accanissi con tanto furore contro la porta di quell’appartamento vuoto.- Non è affatto vuoto, c’è una donna che ha bisogno d’aiuto. L’ho vista dalla mia finestra – M’affannavo a spiegare
– Non c’è nessuno in quella casa, e se lo dico io potete starne certa, l’affittuario, il Maestro, mi ha riconsegnato le chiavi qualche settimana fa – Tagliò corto il portiere, che nel frattempo era sopraggiunto
– Ma io l’ho vista, vi dico. Così come qualche giorno fa vidi un uomo. E aveva un coltello – Ribattei testarda
– La verifica è facile, basta prender le chiavi ed entrare – Suggerì, pragmatico, l’uomo seminudo.
– Già già, verissimo, si può controllare, siate gentile andate a prendere le chiavi così la ragazza si tranquillizza e smette di fare baccano, e noi riprendiamo le nostre faccende. –
Spronato dalla piccola folla, il portiere si risolse ad andare a prendere le chiavi in guardiola.
Com’era questa donna?
Cosa faceva?
Perché dici che era in pericolo?
Raccontai quello che avevo visto, in realtà poco e molto confuso, ma che generò svariate congetture.
La signora della porta accanto si ricordò di aver visto una donna uscire da quell’appartamento e di aver suscitato la sua curiosità perché il Maestro, che godeva fama di misantropo, non riceveva mai visite.
…una donna bellissima, capelli bruni e occhi viola, proprio come quelli dell’attrice, la Elizabeth Taylor. Bella come lei…ma anche più bella.
Forse era la favolosa bruna che altri inquilini avevano notato e di cui s’era ironizzato poter essere una ex moglie, appartenente alla categoria delle sanguisughe.
Nel frattempo era ritornato il portiere con le chiavi e il chiacchiericcio, di botto, aveva lasciato il posto a un silenzio di tomba quando, con qualche circospezione, aveva varcato la soglia e acceso la luce.
…una breve ispezione in tutte le stanze e poi il responso finale, scandito con enfasi vittoriosa: l’appartamento è vuoto!
Allora siamo entrati in massa a verificare, più per la curiosità di profanare un luogo proibito che per mettere in discussione la parola del portiere.
L’appartamento non solo era vuoto ma non c’era nemmeno il pianoforte né il monumentale lampadario, e le finestre erano sigillate dagli scuri sbarrati.
– Bene, signori, ora che abbiamo verificato che l’appartamento è disabitato, come io avevo detto, possiamo tornarcene a casa – Suggerì, beffardo ed impaziente, il portiere
…ma io sentivo che tutti erano rimasti delusi e che avevano sperato fino all’ultimo in quel colpo di scena che avrebbe movimentato, sia pur per un breve momento, la banalità delle loro vite ponendoli sotto gli occhi dei riflettori, spettatori e testimoni di un dramma che aveva tutti gli ingredienti di espandersi in rilevante fatto di cronaca, mentre ora, invece, si rifacevano con battute ironicamente pungenti su quella mia ingiustificata apprensione che li aveva tutti coinvolti a vuoto, e seppur le mie scuse fossero state benevolmente accolte non mi vennero risparmiati commenti del tipo: certi cibi è meglio evitarli la sera, sono indigesti; un’insonnia troppo prolungata genera questo tipo di visioni; le droghe sono la rovina del mondo; colpa dello stress e dei ritmi della vita moderna.
…e via di questo passo.
Ma io, Elizabeth, l’avevo vista!
Imbarazzata, affrettavo il passo fingendo di non aver sentito o mi ritraevo dalla finestra, arrabbiata con me stessa al ricordo della mia sconcertante performance di quella sera, che m’aveva tolto, agli occhi del vicinato, ogni credibilità.
Così decisi che mi sarei affacciata solo di notte, quando il resto del mondo dormiva e la stanza di fronte magicamente, solo per me, s’animava.
…seppur dovetti aspettare molto tempo prima che accadesse di nuovo.
Quella sera un vento di burrasca muoveva le tende e faceva tintinnare le gocce del lampadario barocco; un vento teso a spazzar via le ombre del buio e render nitide quelle dei due uomini avvinghiati in una lotta silenziosa.
Individuai, dal bianco dei capelli, l’uno essere Ludwig, dell’altro, invece, non emergevano particolari identificativi, ma sembrava, tra i due, fosse quello più in difficoltà, quello che subiva la predominanza fisica dell’avversario.
…ed ecco, d’un tratto, nelle sue mani, materializzarsi un coltello che nell’enfasi della lotta gli era però caduto a terra, dove Ludwig fu lesto a raccoglierlo, e poi con quello assediarlo.
Lo sconosciuto, smarrito e maldestro, incespicò nella sua stessa ombra e cadde sulla lama impugnata dall’avversario a stabilire la distanza.
…sgomitando a casaccio nel buio rovinò a terra
Senza più rialzarsi.Questa volta non agii impulsivamente, non corsi a batter alla porta di Ludwig, ma piuttosto mi sforzai di far leva sulla razionalità.
Dunque, ciò che accadeva in quella stanza non avveniva in tempo reale ma era una proiezione di atti compiuti nel passato che, non so per quale ragione, me ne era concessa una visione privata.
Ma per dare un senso alla sequenza di quegli eventi che scorrevano a ritroso (così m’era sembrato di capire che la scena, intravista per la prima volta dalla mia finestra, in realtà fosse l’atto finale) avrei dovuto scoprire l’identità della vittima, della quale, però, non avevo alcun indizio da cui partire.
…interrogare il vicinato, in maniera assolutamente discreta, rimaneva l’unica strategia a cui potessi far ricorso, che consultare i giornali sarebbe stato del tutto inutile poiché di quel misterioso delitto neppure i mass media dovevano saperne nulla….e alla prima buona occasione realizzai l’approccio proprio con la vicina di casa di Ludwig, intercettata mentre attraversava il cortile appesantita da un paio d’ingombranti sporte e impacciata da un grosso ombrello da uomo in cui, a tratti, rischiava d’incespicare.
Finsi di scendere a raccogliere un tovagliolo cadutomi dalla finestra, eppoi come per caso voltarmi e veder lei col suo pesante fardello, andarle incontro offrendole il mio aiuto, che subito accettò, grata, impartendomi benedizioni e ringraziamenti, fin sulla soglia di casa, dove m’invitò ad entrare per un caffè.
…che io, di buon grado, accettai.
Per un pezzo parlammo del più e del meno, poi, inaspettatamente, fu lei stessa ad imboccare l’argomento Ludwig.
Si vedeva che aveva voglia, ma forse più esatto dire, necessità di parlare, di sgravarsi di un peso che, al pari di quello delle sporte, le urgeva dividere con qualcuno.
…e quale pubblico più attento di me, la ragazza delle visioni, avrebbe ascoltato la sua storia?
Così, io ed Adelina (anche questo un nome di fantasia, ispirato dalla fragilità, fisica ed emotiva, identificativa della vicina di Ludwig, altrimenti una donna senza una storia personale ma con la propensione a vivere quella degli altri, per cui, io stessa, avrei dovuto usare molto cautela per preservarmi da sue probabili invadenze future, come mi aveva fatto presagire quel suo fulmineo passaggio dal “lei” al “tu”), sedute in salotto, con davanti un bricco di caffè fumante e un vassoio di biscotti stantii, avanzo di compleanni mai festeggiati, ci apprestavamo ad officiare al rito della confessione: lei la penitente ed io il confessore.