Era una fredda e buia mattina d’inverno, pioveva ed io, come solito, mi alzai presto per andare in ufficio.
Era una delle tante giornate di pioggia che ti propina un ingannevole inverno che, se ti regala ogni tanto qualche splendida e mite giornata di sole, torna imperterrito al suo abituale rigore per ricordarti che la bella e agognata stagione è ancora lontana e che, forse, è addirittura irraggiungibile.
Guardai fuori dalla finestra e borbottai di malumore:
«Piove, che iella, sai che bello uscire con questo tempo!».
Bevvi il caffè, feci una rapida doccia, indossai un maglione sopra a un paio di jeans e cercai le scarpe basse con la suola di gomma che uso quando piove, ma ricordai che le avevo portate a riparare qualche tempo fa ed erano ancora dal calzolaio.
Questo mi contrariò ulteriormente e dovetti indossare un paio di decolté consumato che non era il tipo di scarpa più adatto per quel malefico tempo.
La pioggia non mi piace, mi complica la vita, mi cambia l’umore e percepivo che si annunciava una giornataccia.
Indossai l’impermeabile, presi la borsa porta documenti, agguantai un ombrello e uscii da casa di pessimo umore.
Come previsto, le strade erano intasate e la pioggia s’intensificò impedendomi la visuale, per sancire che non aveva intenzione di concedere tregue.
«Perfetto!» commentai sarcastica cercando inutilmente di sbrinare i vetri.
Arrivata in centro, dopo aver arrancato in mezzo a una marea di auto che marciavano alla mirabile velocità di mezzo metro l’ora, mi diressi verso il parcheggio a pagamento più vicino al mio ufficio e, per un inaspettato e inspiegabile colpo di fortuna, trovai un posto a pochi metri di distanza dal portone d’ingresso:
«Sono stupita, non ci speravo, per bilanciare a questo colpo di fondo schiena cosa mai potrà succedermi?», mi chiesi scettica.
Non è per pessimismo ma non posso certo affermare di avere una vita tranquilla e fortunata, che tutto fili via liscio è un’illusione, che spesso debba lottare, è normale routine e che, da molto tempo, abbia accettato questo dato di fatto come uno stile standard della mia vita è una tragica certezza.
Per questo motivo affermai:
«Facciamoci coraggio!»
Parcheggiai, scesi dall’auto imprecando perché l’ombrello non si apriva e, dopo aver lottato contro il vento che mi ostacolava, mi trovai bagnata dalla testa ai piedi.
Quando riuscii a prendere il biglietto dalla macchinetta e a entrare nel portone, non senza aver sputato qualche parolaccia, scrollai l’ombrello zuppo d’acqua costatando che ero in condizioni pietose.
Il resto della mattinata passò senza intoppi di rilievo ma le scarpe erano bagnate e avevo i piedi gelati, i capelli umidi e, mentre lavoravo al computer, mi vennero i brividi di freddo perché, proprio quel giorno l’impianto di riscaldamento non funzionava.
«La ciliegina sulla torta», ricordo che pensai.
«Spero di non prendermi un malanno, mi ci mancherebbe solo questo», mormorai mentre lavoravo in fretta e rivolgevo uno sguardo preoccupato alla finestra:
«Se mi sbrigo, tra una mezz’ora potrò uscire, porterò il resto del lavoro a casa», mi consolai.
La pioggia persistente non aveva intenzione di concedere tregue e batteva a raffiche contro i vetri della grande finestra come una mitraglia.
Ero rassegnata e mi rabbonii al pensiero che per il pomeriggio non avevo impegni e sarei potuta stare tranquilla a casa al caldo.
A mezzogiorno, il traffico si fece molto intenso, mi arrivava il suono dei claxon degli automobilisti che, intasati nel traffico, stavano perdendo la calma.
Poco più tardi, mi preparai a uscire nella bufera.
Indossai l’impermeabile che era ancora fradicio, presi la borsetta, la borsa porta documenti e l’ombrello che era simile a uno straccio e quasi inservibile.
Avevo le mani occupate da tutte queste cose e mi sentii impedita.
Mi fermai qualche secondo sulla soglia del portone e, prima di immergermi nel caos, presi il borsellino per pagare il parcheggio ma, mentre stavo osservando la pioggia che scendeva a dirotto e stava allagando la strada trasformandola in un’immensa palude, mi si avvicinò una ragazzina che, a prima vista, sembrava avere all’incirca dieci, undici anni.
Si vedeva chiaramente che era una zingara; era magrissima, con gli occhi scurissimi; i capelli castani, lunghi e in disordine, si appiccicavano alla sua testa bagnata.
Indossava un vecchio piumino strappato e dalla gonna troppo corta, spuntavano due gambe magre e ossute.
L’espressione del suo volto era triste e mi lasciai intenerire.
La ragazzina allungò una mano sporca verso di me:
«Mi puoi dare qualcosa, signora, ho fame e freddo, non mangio da ieri» piagnucolò.
La osservai meglio e non so per quale inspiegabile ragione mi ricordò mia nipote che doveva avere circa la sua età.
A posteriori riconosco che questo paragone mi tradì.
Mossa da pietà, aprii il borsellino per darle qualche moneta ma, all’improvviso, la piccola zingara si trasformò in un avvoltoio.
Prese le monete che le porgevo, ma agguantò velocissima una banconota da cinquanta euro che spuntava dal mio portafogli e incominciò a blaterare, con aria da esperta professionista:
«Vuoi che ti legga la mano? Ti porto fortuna, vedrai», disse facendo sparire la banconota in una mano.
Il suo abile gesto mi colse di sorpresa ma, dopo una momentanea indecisione, reagii:
«No, guarda, non m’interessa il mio futuro, mi basta e avanza conoscere il mio presente schifoso, restituiscimi i soldi».
La furba ragazzina, mi restituì le monete, ma tenne ben chiusa l’altra mano, dove stringeva la banconota, portandola dietro la schiena e ripetendo con voce insistente e lamentosa:
«Ti leggo la mano, sono molto brava, non vuoi conoscere il tuo futuro?»
Stavo per perdere la pazienza e mi rendevo conto che, se la diabolica ragazzina fosse fuggita, per me non ci sarebbe stato scampo: scarpe con il tacco, borsa, borsetta, ombrello e pioggia.
Ero in netto svantaggio e troppo impedita per poterla rincorrere e poi, alla mia età competere con lei sarebbe stata una cosa impensabile.
«Dammi i miei soldi», ripetei a voce più alta.
Per fortuna, il gestore del bar affianco al portone, che mi conosce da una vita e aveva assisto alla scena, uscì dal locale e si rivolse all’imbrogliona, con fare minaccioso:
«Restituisci subito i soldi alla signora altrimenti chiamo i carabinieri».
Vedendo che erano arrivati i rinforzi, la ragazzina, mi restituì controvoglia la banconota e scappò via veloce come una lepre, sparendo in mezzo alla marea di auto e si dissolse come un fantasma inghiottito dalla pioggia.
Entrai nel bar, stavo tremando, ringraziai il gestore che, vedendomi sconvolta, mi fece sedere e mi offrì un bicchiere d’acqua.
«Questi disgraziati sono dappertutto, sono degli sfaticati e ladri, bisogna stare attenti», aggiunse il barista mentre raccontava il fatto a un cliente che stava leggendo il giornale.
Lo ringraziai ancora, poi mi diressi verso il parcheggio, buttai l’inservibile ombrello in un cassonetto, guazzai libera nell’acqua che aveva preso il sopravvento e m’infilai in auto mentre mi guardavo intorno ancora impaurita.
Ero bagnata fradicia, infreddolita, sconcertata, ma, finalmente, mi sentivo al sicuro.
A casa, sotto una doccia bollente, riflettei sull’accaduto e sospirai:
«Spesso mi lascio commuovere da questi poveretti che chiedono aiuto, devo imparare che la pietà spesso non ripaga!».
«Accidenti a me e al mio cuore di nonna!»
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