UNA STORIA NELLA STORIA
Non t’accorgi, Diavolo che sei, che tu sei bella come un Angelo?
(Giacomo Leopardi – Pensieri)
La baronessa Cherubina Spadaro della Salina di Fragiovanni di Mazzara del Vallo, era nata provvista di una fisicità superba, un carattere indomabile ed un istinto prodigioso per gli affari, tant’è che aveva reso oltremodo prospera quella salina ereditata alla morte del padre, languente ed abusivamente saccheggiata, ripristinando il rigore legale degli affitti e degli interessi alla baronia spettanti, ed incrementando, con mirabile preveggenza, le esportazioni estere, soprattutto verso il Giappone, dove aveva aperto una sede, commerciale e di rappresentanza, che personalmente dirigeva.
Alta, dotata di un’ossatura solida ma armoniosa, un’epidermide compatta nella tonalità rara dell’ambra brunita, in spettacolare contrasto con la chioma tizianesca e le iridi color dell’acqua.
La testa di Medusa sul corpo di Giunone, come felicemente, e a ragione, ebbe a sintetizzare lo scultore Adamo Tadolini, allievo prediletto di Canova, per il quale la baronessa aveva posato per diverse sue opere.
Orgogliosa, intraprendente ed indipendente, la baronessa non s’era mai voluta sposare, declinando le innumerevoli offerte di matrimonio, tra le quali anche quella del conte Alessandro Floriano Giuseppe Colonna-Walewsky, figlio naturale di Napoleone Bonaparte.
Figlia unica, alla morte del padre definitivamente affrancata da ogni vincolo parentale, la splendida Cherubina aveva scelto liberamente di spendere la sua vita in quel che più le si confaceva: gli affari ed il piacere.
Una donna spettacolare che, inevitabilmente, s’era attirata la malevolenza e le invidie degli intolleranti che non le perdonavano la sfrontatezza di questa sua scelta spregiudicata, oltretutto premiata da una ricchezza favolosa, frutto dell’acume e non del talamo, e di cui la baronessa ne andava giustamente fiera.
E, nella veste di capitano d’industria, s’era perfino concessa il diritto di fumare pubblicamente i suoi sigari.
Privilegio che le veniva accordato anche nei salotti più formali, in virtù di quel potere accreditato dall’importanza delle sue solide relazioni commerciali, politiche e di letto, cosicché la sua biografia s’andava con gli anni arricchendo di capitoli nuovi, sempre più fantasiosi e piccanti, secondo che a scriver la storia fosse la penna d’un ammiratore o d’un detrattore.
Così, in base agli umori e alla fantasia di quella colta e blasonata platea di scrittori/lettori/critici/censori, (all’interno della quale si poteva benissimo essere, al contempo, l’uno o l’altro o tutt’uno) la leggenda della baronessa s’era nel tempo ammantata, e poi sempre più consolidata, nell’aura dell’ambiguità, malignamente presupponendo dietro i suoi strabilianti successi commerciali, la benevolenza di un deus ex machina (un potentissimo amante) e, per i suoi sollazzi più privati, la compartecipazione di una qualche oscura fantesca.
Cherubina, al corrente di queste immaginifiche leggende, mai s’era presa il disturbo di smentirle e schiettamente ne rideva, riducendo a commedia quello che le male lingue avrebbero desiderato veder tramutare in dramma.
Solo una volta s’adirò, giungendo beffardamente a sfidare a duello, dopo averlo pubblicamente schiaffeggiato col suo lungo guanto di raso viola, l’artefice di un articolo infamante, schernendolo con “esigo le vostre scuse pubbliche o altrimenti mi vedrò costretta a sfidarvi a duello all’ultimo sangue, e dovrete battervi con me, una donna, e state pur certo, che non sarò io a soccombere se davvero sono quella che descrivete nel vostro abominevole pamphlet: una diavolessa dispotica, tentatrice e turlupinatrice. Vi avverto che userò la spada allo stesso modo in cui voi usate la penna: senza regole. Non vi sfido per salvaguardare il mio onore di donna, che è una mia privatissima questione, e se ho scelto di non doverne dar conto ad un marito non vedo perché dovrei discuterne con voi, che per me siete meno di uno zero, ma trovo odioso il dubbio insinuato sull’onestà dei miei commerci, e quella si è una mia reputazione pubblica da voi impudentemente infangata, che solo la ritrattazione del vostro articolo, e le pubbliche scuse, potranno lavarne l’onta e limitare i danni. Esigo quindi le vostre scuse ufficiali, e che siano convincenti o pretenderò la soddisfazione delle lame, E se ipotizzate che io abbia paura, o questa sia solo una farsa, ricredetevi, perché io non sono di quelle che si spaventano alla vista di un topo e ancor meno di uno scarafaggio!”
Questa sfida, che destò grande scalpore, enormemente accrebbe la leggenda della baronessa e commosse, risvegliando l’impeto cavalleresco che ancora albergava negli animi più nobili, così Cherubina trovò schierato ai suoi piedi un drappello di ammiratori pronti a battersi per il suo onore.
Tra questi c’era anche il barone Giacomo Niccolò Denti Drago.
UN GIORNO SENZA SEGRETI
Il piacere, che sappia di nettare o di veleno, per essere fino in fondo gustato, non va diluito né mai con altro mescolato.(Giacomo Niccolò Denti Drago – Pensieri)
Non t’accorgi Diavolo, che tu sei bella come un Angelo?
Con questa frase, plagiata al Leopardi, il giovane barone Giacomo aveva approcciato la baronessa Cherubina, di diciotto anni più vecchia di lui, ma ancora raggiante nella gloria piena dello splendore fisico della maturità.
Il barone s’era innamorato, seduta stante, della donna e della sua leggenda.
Ma non era stato così per lei che in quel giovane scapigliato, e di aspetto piacevole, non aveva ravvisato nessuna particolare prerogativa che lo distinguesse da tutti gli altri suoi ammiratori.
Amaro destino quello di questa donna capace di sconvolgere il cuore e la mente degli uomini, infettandoli col morbo insidioso della passione irreversibile, ma risultandone lei, invece, assolutamente immune.
Così aveva trascorso tutta la vita nell’attesa di un uomo in grado di contagiarla, ingannando il tempo con amanti temporanei, nessuno dei quali destinato ad esser l’eletto.
Nobili, artisti, commercianti, togati, perfino un alto prelato che per lei volentieri sarebbe precipitato nelle fiamme dell’inferno, s’erano succeduti nel suo letto, sostandovi solo il tempo bastante alla baronessa di capire che lo sbadiglio del risveglio s’era tramutato in quello della noia.
Senza tentennamenti, allora, rompeva la relazione.
Con Giacomo, invece, non si compì mai la rottura, perché la baronessa, imbarcata sulla nave “Esperia” per uno dei suoi consueti viaggi commerciali in Giappone, perì insieme ad altre centinaia di passeggeri in un apocalittico naufragio nei pressi dell’Isola di Honshū.
Se per la baronessa era stato solo uno fra i suoi tanti amanti, per lui, invece, lei sarebbe rimasta l’unica che avrebbe invocato col suo nome di battesimo, quando tutte le altre, invece, s’erano dovute piegare alla ragione poetica del nome condiviso.
E così ecco tutte le Silvie adunate sotto il portico baronale, nel giorno della celebrazione funebre, con gli occhi lucidi e i fazzolettini per asciugar le lacrime, che si studiano con curiosità e malizia, ma senza nessuna ostilità.
La più anziana delle presenti è una Silvia che ha già da un po’ oltrepassato i sessant’anni, la più giovane è una francesina venticinquenne che il barone aveva ribattezzato Petite Sylvie, e di cui la madre, decenni prima, s’era rivelata una delle Silvie più appassionate ed intraprendenti, così che anche la sua figlia più giovane è stata sedotta da quell’uomo da romanzo che l’ha conquistata con le premure di un nonno e il fascino dell’affabulatore.
Petite Sylvie piange lacrime doppie, anche per sua madre impossibilitata ad affrontare il viaggio in Italia.
Prima di quel giorno le Silvie non si sono mai incontrate, paghe di far parte della leggenda hanno saputo evitare, con provvidenziale buon senso, di usare le armi femminili dell’intrigo per violare l’identità delle altre.
Protagoniste consapevoli di storie parallele, che il segreto del barone era da anni stato svelato, anche se loro hanno finto d’ignorarlo e pazienti hanno atteso che le scegliesse per battezzarle col nome di Silvia, ed entrare nella leggenda prima ancora che nel suo letto.
Hanno dormito avvinghiate allo stesso uomo e nelle stesse lenzuola, e questo le rende complici, depositarie di un segreto comune che ora possono finalmente condividere.
Si scrutano, si sorridono, si riconoscono sorelle, e le voci, all’inizio timide, s’alzano di tono, si accavallano e si rincorrono, in un chiacchiericcio, animato ed amichevole, che si espande e tintinna come il ghiaccio nei bicchieri.
Ghiaccio che s’è rotto in una risata scaturita da una confidenza sussurrata dietro un ventaglio, ma che immanente si propaga e coinvolge tutte, perché tutte fanno parte, quel giorno, della stessa storia.
Come i fiori di un variegato bouquet, così dissimili nei colori e nei profumi, ma tutti germogliati dalle amorevoli e pazienti mai dello stesso giardiniere che, intimamente apprezzando ogni singolo fiore nell’unicità irripetibile della propria bellezza, ha saputo rifuggire dalla tentazione sperimentale dell’ibrido.
Perché il piacere, come soleva ripetere il barone, che sappia di nettare o di veleno, per essere fino in fondo gustato, non va diluito né mai con altro mescolato.