E fu la volta del Ferro. Come già detto faceva la “comparsa” nello studio legale del genitore per cui Vera mise a punto un piano di azione studiato a tavolino con tanto di attori e sceneggiatura. In compagnia di mio figlio maggiore si presentò al suddetto studio legale e chiese espressamente di parlare con l’avvocato Pier Francesco Maria Ferrandi, nonostante lo stupore delle due segretarie che si guardarono costernate. Quando si ritrovò al cospetto del Ferro dovette fare uno sforzo per non scoppiare in una fragorosa risata. Il Ferro era un uomo in sovrappeso dall’aspetto trasandato, che non ispirava nessuna fiducia; sembrava circondato da un alone di ignoranza e superficialità, quelli propri di chi non è mai cresciuto, e appariva come un gigantesco bambinone senza cervello. Infatti lo beccarono senza calzini, con gli occhiali al contrario ed i piedi incrociati sulla scrivania mentre cercava di soffiare via due tappi di carta infilati nelle narici, emanando dalla glottide un rumore alquanto inquietante, simile a quelli di un toro in calore.
Appena vide quella donna, così elegante, la guardò come se fosse la cosa più affascinante gli fosse capitata nella vita e cercò di ricomporsi, diventando ancora più goffo e grottesco.
Vera gli parlò della sua causa di divorzio (ovviamente finta) e dell’affidamento del figlio (ovviamente finto perché era il mio), ponendogli per due ore delle domande precise e pertinenti, alle quali l’avvocato delle cause perse non risultò, come era prevedibile, in grado di rispondere.
Il Ferro tentò di tergiversare alzandosi ogni due minuti con delle scuse che non stavano in piedi, nel mentre cercava il supporto dei colleghi, che invece ridacchiavano alle sue spalle. Vera era intenzionata a farlo sentire un incapace, e devo dire che ci riuscì perfettamente. Ma non si limitò a quello.
La sera dopo volle tornare allo studio legale con un piccolo esercito composto da me, dal mio cane e da quei due teppistelli dei miei figli (che ormai con Vera si divertivano un mondo) debitamente fornita di munizioni: due dozzine circa di uova. Dopo aver individuato la macchina del Ferro, mentre i miei figli ed il cane scodinzolante facevano da palo, iniziò a lanciare le sue uova, una ad una, lentamente… e per ognuna di esse ricordava un episodio sgradevole che aveva riguardato la sua conoscenza con il Ferro. Quando finalmente ebbe finito io sperai di tornare a casa a gustare la nostra cena e …invece no, lei volle aspettare che il Ferro uscisse dallo studio legale, così noi, sei membri di quell’improbabile strampalato esercito, ci nascondemmo quatti quatti nell’androne di un palazzo.
Il Ferro non si fece attendere e mentre si avviava trotterellando verso la sua bella macchina sportiva venne affiancato da Vera, che sbucò inaspettatamente dal suo nascondiglio. Così finalmente gli rivelò la sua identità, ma rimase sorpresa nel constatare che lui non si ricordava affatto di lei; dopo averla insultata e tormentata per anni non ricordava neanche il suo nome. Non che Vera fosse amareggiata per non aver impresso in lui il ricordo di insulso giocattolino, ma restò scioccata nel costatare come alcune persone non abbiano proprio alcuna considerazione della dignità umana. Quando si avvicinarono alla macchina ormai ridotta ad un ammasso di uova, non so se per uno scherzo del destino o per uno sgambetto di Vera che non aveva mai sopportato quel surrogato di uomo, il Ferro perse l’equilibrio e si “spatasciò” sul cofano della sua macchina. Aveva assunto una buffa posizione… con le braccia e le gambe aperte sembrava una gigantesca X e – cosa ancora più ridicola – a causa della sua mole disposta sull’intruglioso puzzolente miscuglio di albumi e tuorli, continuava a scivolare su e giù per il cofano dell’auto nel goffo tentativo di alzarsi. Così iniziò a strillare come una donnetta isterica implorando Vera di aiutarlo, prima buttandola sul pietismo e, poi vedendo che lei non si muoveva, apostrofandola con epiteti irripetibili. Lei lo guardò disgustata e, mentre il suo cervello gli suggeriva svariate forme di truce vendetta, decise che la soluzione migliore fosse girar le spalle ed andar via sculettando allegramente, lanciando un’ultima occhiata a quell’ammasso informe che si crogiolava nella sua stessa melma. Si limitò a salutarlo con un ampio sorriso, misto ad un ghigno di piacere, e gli lanciò un bacio volante, che in altre circostanze non avrebbe mai avuto occasione di ricevere da una donna di classe come lei.
Dulcis in fundo: restava ancora il Fuoco, destinato proprio al giorno prima della partenza di Vera. Poiché aveva un ristorante elegante scegliemmo l’opzione più ovvia: che io e Vera andassimo a cena da lui… e poi era la nostra ultima sera. Sapevamo che non ci saremmo più perse ma chissà se e quando ci saremo riviste. Quella era stata una parentesi felice, un regalo inatteso in un ripetitivo silenzioso avvicendarsi di giornate già da tempo per me sempre uguali. La normale quotidianità mi avrebbe riportato con i piedi per terra, dopo che con Vera avevo quasi provato a volare. Avrei fatto fatica a stare senza di lei e lei viveva a Londra. Per me purtroppo era impensabile mollare marito e figli per andare a trovarla. Vabbè. Mi sarei rassegnata e sarei andata avanti mesta, nella monotonia della mia vita.
Quella sera, se devo essere sincera, anche io ero curiosa di vedere Paolo sia perché era sempre una gioia per gli occhi guardare un tal bel pezzo di “manzo”, sia perché ero curiosa di capire cosa aveva in mente Vera. Ero sicura che non sarebbe stata vendicativa, perché in cuor suo provava ancora qualcosa per lui. Immaginavo che magari lei avrebbe balbettato, turbata, in sua presenza e sarebbe arrossita davanti al suo sguardo penetrante… o forse lui sarebbe rimasto colpito da quel turbinio di conturbante inaspettata bellezza.
Appena vidi Vera agghindata per uscire feci una riflessione: quel vestito nero, elegante ed attillato, era un’aperta dichiarazione di guerra. Contrariamente alle mie aspettative, Vera mi confessò di avere un piano diabolico; estremamente convinta di trovarsi di fronte ad un maschio sciupafemmine che trattava le donne come se fossero una mercanzia, sarebbe stata complice nel suo gioco di seduzione per poi, nel momento top, dileguarsi con i suoi vestiti per lasciarlo in mutande. In realtà la cosa mi inquietò perché mi sembrò eccessivo; non era da Vera comportarsi così, sino adesso aveva fatto solo qualche dispettuccio senza conseguenza, ma questo era un po’ troppo, anche perché ci trovavamo nel suo locale e secondo me rischiavamo grosso. Promisi comunque di assecondarla e di non rivelare assolutamente al Fuoco la sua vera identità.
Quando arrivammo a destinazione la prima cosa che entrambe notammo in quel sia pur splendido, sontuoso scenario, fu Paolo. Bello ed elegante nel suo abito scuro era perfettamente credibile nel suo ruolo di manager protagonista di un’attività così ben avviata; in realtà la serietà del suo abito veniva smorzata da un tocco di raffinata frivolezza, espresso da una vistosa cravatta rosa che sembrava voler sottolineare la sua indole zuzzurellosa. La profondità dei suoi occhi e l’ardore delle sue labbra erano rimasti inalterati, le rughe di espressione e la leggera brizzolatura dei capelli gli conferivano un’aria ancora più fascinosa ed intrigante. Insomma la maturità, che per alcune persone è il flagello dell’inevitabile imbruttimento, sembrava aver riservato per lui dei doni esclusivi e migliorativi. Sembrava avvolto da un’aura magica e carismatica da cui nessuno era immunizzato. Contrariamente a lui, sua moglie, donna giovane di indubbia bellezza, quasi statuaria, appariva statica, immobile: il suo unico pregio sembrava limitarsi alla presenza scenica.
Paolo, istrionicamente onnipresente, notò la nostra entrata e si avvicinò per salutarci. Io fui bypassata senza pietà da un fugace quanto distratto “ciao Cristina”, mentre ovviamente fu Vera a catalizzare la sua attenzione, che si presentò come mia amica che viveva all’estero. ma Paolo, che non era di certo nato ieri, supponendo che io mai mi fossi allontanata dal paesello natio, ci sviolinò con tutta una serie di domande su come dove e quando ci fossimo conosciute. Vera lo incuriosiva non solo per la sua bellezza ma perché era sicuro di averla già vista e lo ripetè più e più volte. Appena poteva spediva la moglie statua in cucina con una scusa qualunque e si sedeva al nostro tavolo, scrutando Vera con i suoi occhi blu, chiacchierando con lei, incuriosito ed ammirato per il suo lavoro in ospedale pediatrico, che richiedeva una carica emotiva non indifferente. Io ero lì che facevo quasi da tappezzeria mentre quei due si studiavano e si scrutavano, dissi solo una frase che risultò essere infelice: rivelai che eravamo stati compagni di scuola. Il Fuoco fece un sobbalzo quasi acrobatico e, tra uno stupito “se” ed un incredulo “ma”, chiamò Vera col suo nome di battesimo, dichiarando che l’avrebbe riconosciuta tra un miliardo di persone. Raccontò di non averla mai considerata una sciocca: ricordava bene il suo intuito, la sua bravura, la sua curiosità, la sua sfrenata fantasia. Era rammaricato per come si era comportato con lei e le chiese scusa ancora una volta. Lei aprì la borsetta e gli mostrò il suo prezioso biglietto, quello che lui aveva lasciato nel libro di matematica l’ultimo giorno di scuola, quello che custodiva gelosamente come se fosse una reliquia. Da quel momento in poi la situazione sembrò precipitare; era evidente che quei due avevano intrapreso un cammino senza ritorno sulla strada della passione. Li osservavo studiarsi e perdersi nel desiderio, avvinghiarsi negli sguardi di chi immagina cosa due corpi, avidi amanti, sanno fare.
Vera, che era arrivata lì convinta di incontrare dun banale esemplare di maschio mandrillo, si trovava invece al cospetto di un uomo intelligente, affascinante, che attimo dopo attimo la stava spogliando col potere delle sue parole e la sapienza dei suoi gesti. Era palpabile nell’aria il contrasto, come il chiaroscuro di una tela, tra l’eleganza glaciale del ristorante, adornato di cristalli swarovski, ed il calore della carica erotica che li stava avvolgendo. Persino il cibo sembrava adeguarsi alla calda atmosfera; sembrava emanare profumi ricchi ed afrodisiaci e colorarsi di tinte vivaci, che sembravano dipinte. Così tra il rosso scarlatto dei pomodori pachino ed il verde intenso delle zucchine julienne Paolo propose a Vera di vedersi dopo cena. Io ero inquieta, lo confesso, perché conoscevo già l’epilogo della serata ed immaginavo me stessa, triste ed annoiata, ad aspettare in macchina che quei due finissero di aggrovigliarsi chissà come, chissà dove e soprattutto chissà per quanto. Sapevo che Vera, mente libera dalle imposizioni imposte da una società perbenista, non si sarebbe lasciata sfuggire quell’occasione mai sperata, ma comunque attesa da una vita. Così quando mi guardò fissa e mi sorrise furbescamente cominciai a blaterare che avevo capito tutto, che lungi da me l’idea di essere giudicante, anche se provavo compassione per il povero Eddie, che mi sarei rassegnata ad aspettare oppure chissà, avrei preso un taxi bla bla bla…
Vera mi prese per mano e mi trascinò in cucina, incurante del divieto di accesso ai non addetti ai lavori.
Lì c’erano Paolo e la sua statua che impartivano istruzioni al personale. Vera si avvicinò alla coppia, scusandosi per quell’intrusione inopportuna, ma necessaria per salutare prima di andar via. Ovviamente non disse a Paolo la solita frase astrusa dei suoi saluti, che in quell’ultima settimana avevo sentito tante volte e cioè “io abbraccio solo Cristina” ma, con fare seduttivo, lo cinse in un abbraccio sin troppo caloroso. Anzi di più, con un gesto irriverente degno del più scurrile esemplare di maschio troglodita, gli afferrò il didietro con entrambe le mani e, guardandolo fisso negli occhi blu profondo, gli sussurrò “peccato, sarebbe stato bello!!” e gli sferrò un imprevedibile quanto passionale bacio alla francese. Per un interminabile istante quell’irrefrenabile connubio di lingue e tenerezza aveva fermato il tempo “freezzando” tuti i presenti, che guardavano imbambolati quella scena da film.
Quando i due potenziali amanti, perduti in quel caldo tenero bacio, si staccarono, Vera, come se niente fosse, salutò la moglie di Paolo (che sembrava ancora più imbambolata del solito) stringendole la mano e congedandosi con un “è stato un piacere conoscerla” e poi girò i tacchi andandosene via sculettando, mentre io, come sempre, immaginavo nella zona uditiva del mio cervello la solita musichetta da burlesque che accompagnava le sue uscite trionfali. Onestamente io avevo fretta di uscire dal locale perché avevo paura che magari la statua, mossa da un impeto di focosa gelosia, ci lanciasse un coltellaccio da cucina e ci facesse a fettine. Prima di uscire però non potei non dare una sbirciatina a Paolo, che giaceva immobile, tutto rosso ed imbambolato. Non sembrava neanche lui, per quanto era impacciato; beh… di sicuro nella sua mente aveva sperato in un epilogo diverso.
Quella fu la nostra ultima sera e mai avrei immaginato un finale così esplosivo; in quell’istante ci eravamo ritrovate ancora più unite, sincere e simbiotiche, come due anime perse che si sorreggono nell’oblio dei ricordi offuscati. Felici nel buio camminavamo insieme, come due streghe complici di un incantesimo fatato in una notte di luna piena. Felici nel buio camminavamo insieme come due amanti ancora inebriati dall’odore di un amplesso che vogliono godersi i rumori del silenzio della notte….e guardano le loro ombre proiettate allungarsi e ricongiungersi alla luce di lampioni solitari.
Il mattino dopo mi svegliai di buon ora, pronta ad affrontare con un triste saluto malinconico la mia amica di sempre, scomparsa e poi riapparsa come per incanto. Ma rimasi di sasso quando mi accorsi che Vera non c’era più. Era fuggita all’alba, come una ladra che ha estirpato e rubato le sue radici …senza salutarmi. Ero furiosa e amareggiata… come aveva potuto sparire così??? Senza neanche un saluto, un tiepido abbraccio.
Mentre interrogavo me stessa su quell’astrusa ed ancora una volta imprevedibile piccola grande donna, apparve la mia figlia minore, con una scatola adornata da un fiocco. Era da parte di Vera ovviamente.
Mi spiegava il motivo della sua fuga; diceva che salutarmi sarebbe stato troppo doloroso per lei, temeva che potesse riaffiorare Rinetta, dall’anima fragile e dai sentimenti buoni. Non avrebbe potuto congedarsi da me semplicemente, in maniera normale, avrebbe dovuto aprire la sua anima e non voleva uscirne devastata.
Io ero stata l’amica di sempre, l’unica che si era preoccupata per lei ed aveva abbracciato i suoi pensieri cupi, l’unica persona persa e ritrovata, l’unica sempre presente quando persino lei era perdutamente assente e lontana da se stessa. Nella scatola c’erano le nostre foto del prima e del dopo, un biglietto aereo per Londra, un diario con le pagine bianche ed una dedica nella quale Vera mi incitava a non lasciare i sogni in un cassetto ma a tenerli a vista, su uno scaffale. “Così se ti sporgi un poco quei sogni li puoi toccare, e ti rendi conto che non sono irraggiungibili. Bisogna almeno provarci”.
Sono passati sei mesi da allora. Sento spesso Vera, quasi una volta a settimana. So che ha rivisto Paolo, il quale si è inventato uno stage di “alta cucina” a Londra e va a trovarla from time to time per trascorrere con quella splendida donna momenti rubati di sesso sfrenato, conditi da amore puro e fantasiosa leggerezza. Per quel che riguarda me, donna normale, con una famiglia normale e un cane normale, ho appena finito di scrivere la nostra storia sulle pagine bianche del suo diario, ho pianificato di andare a trovarla a casa sua, a Londra, nel suo mondo magico di fata piccina circondata dai suoi teneri bimbi malati. E, seguendo il suo percorso, ho imparato che si può cambiare.
Vera ormai mi è entrata nell’anima e non posso pensare di non rivederla mai più. Quella ladra di ricordi di sicuro non tornerà in paese, ma entrambe sappiamo che siamo amiche… amiche vere e, come due parallele tendenti all’infinito, abbiamo l’assoluta certezza che sarà così per sempre.