IL REGALO

“Vieni”, mi disse un giorno.
“Vieni in quella stanzetta dietro la sacrestia, voglio mostrarti una cosa importante, che nessuno all’infuori di me ha già visto.
Ma è un segreto, e tale deve rimanere.
Sei un privilegiato, tu; non ho mai ammesso nessuno a condividere questa cosa con me, insieme a me. Ma in te ho fiducia, sei un bravo ragazzino, serio e pulito, onesto e innocente; so che non mi tradirai. Tu ami Gesù? Ecco, anch’io lo amo.
Sei il mio Gesù Bambino, sai? E Gesù ci vuole bene. Mi vuoi bene, tu?”
Provavo una strana sensazione di disagio nell’ascoltare quelle parole, mi sentivo inquieto ma allo stesso tempo pervaso da una irresistibile curiosità, come se in quella stanzetta dietro la sacrestia mi si sarebbero infine dischiuse molte altre porte, dietro le quali trovare risposte alle mille domande che già mi ponevo, in un fervore di scoperta cui non avrei potuto rinunciare, pena il rimpianto eterno per non aver acconsentito alla “verità” di penetrarmi e insinuarsi in me, arricchendomi e liberandomi al contempo di tutti i dubbi e le incertezze che già allora mi dimoravano (e divoravano) dentro.
Così, accettai.
Lui mi guardò con tenerezza, così almeno mi sembrò in quel momento, e ponendo la sua mano sul mio capo, mi attirò verso di sé, abbracciandomi.
Il mio viso premeva contro quella lunga tonaca nera, all’altezza del suo petto, e fiducioso da un lato e intimorito dall’altro, percepivo con le narici l’odore polveroso della stoffa che mi sfiorava il volto.
L’appuntamento era per il giorno successivo, alle quattro del pomeriggio.
Mi sarei dovuto presentare in chiesa, dove lui mi avrebbe atteso accanto al primo confessionale sulla destra dell’entrata e insieme avremmo raggiunto quella stanzetta dietro la sacrestia, che ormai era entrata di diritto nel mio immaginario quale fantastico luogo di chissà quali meraviglie nascoste.
Mi presentai puntualmente, cinque minuti prima dell’orario concordato; lui era già lì, in attesa.
Appena mi vide, mi venne incontro sorridente e ponendo il suo braccio paterno sulla mia spalla mi diresse verso l’uscita posteriore della navata, quella riservata ai sacerdoti e ai funzionari religiosi, accompagnandomi fino alla fatidica “stanzetta”.
Entrammo.
L’ambiente era piuttosto ristretto, in penombra, solo una pallida luce penetrava all’interno dall’unica stretta finestra che, notai, era ben chiusa, nonostante il caldo di quel giugno inoltrato.
Una scrivania, una seggiola in legno, un’armadiatura a scaffali piena di libri, un divanetto antiquato, qualche immagine sacra alle pareti e l’immancabile crocifisso appeso sopra la porta.
Notando la mia esitazione, mi invitò con voce calda e pacata ad accomodarmi sul divano, mentre egli si fermò dapprima in piedi accanto alla finestra, poi avvicinandosi prese posto sul divano accanto a me.
Esitavo, me ne rendevo conto, la situazione non era certo usuale, ma la mia curiosità prendeva il sopravvento, non avrei potuto, né voluto, essere altrove in quel momento.
In quel dannatissimo momento…
Che fosse un “dannatissimo” momento – e che lo sarebbe poi stato e rimasto per lunghi anni ancora, fuori e dentro di me – lo avrei scoperto di lì a poco, e più avanti, diventando via via sempre più consapevole di quale fosse la vera realtà delle cose, che egli si ostinava a definire “il regalo”, il suo regalo, per me.
Tornai a casa confuso, quel giorno.
Incredulo e imbarazzato, vergognoso e ben intenzionato a non farne parola con alcuno, di quanto fosse successo.
Un segreto.
“Il nostro segreto”, continuava a ripetere.
“Perché al mio Gesù Bambino io voglio bene!”, ribadiva frequentemente queste parole, lui, mentre mi attirava a sé invitandomi a condividere e “gioire” insieme di quei momenti che io, poi, per anni non avrei saputo definire correttamente. Se colpa o vergogna, o una commistione di entrambe, abbinate alla tragica consapevolezza che man mano, col tempo, andava impossessandosi di me lasciandomi addosso e dentro una insopprimibile sensazione di inadeguatezza.
E di dolore.
Di quel dolore acuto, sordo e inesprimibile che la sofferenza prolungata contribuiva ormai a cronicizzare.
Ci convivo ancora oggi, sì.
Quel dolore antico è diventato il mio inseparabile compagno di viaggio in questo percorso terreno che non mi condurrà più, ormai lo so, “alla vita del mondo che verrà”.
L’unico mondo che ho conosciuto e conosco, è qui, ora, su questa terra, in questa valle di lacrime che incessantemente solcano, invisibili, anche il mio viso.
Da tempo immemorabile, ormai.
Dopo le scuole superiori, la mia famiglia si trasferì in un’altra città e ricordo ancora che io, allora, fresco di diploma, salutai il cambiamento come un segno positivo di speranza, di fiducia, verso il prossimo, verso la vita e le opportunità che, prima o poi, sempre ti offre di correre incontro al riscatto e alla liberazione.
Così pensavo.
Così speravo.
Non immaginavo, invece.
Non sapevo che la vita mi avrebbe sempre e comunque presentato il conto, ormai.
E che non sarebbe bastata la vita stessa a saldarlo, per me.
Lui… Lui, non c’è più.
Ho saputo della sua morte un paio di anni fa, da informazioni pervenutemi per vie traverse dalla località in cui all’epoca vivevo.
Vivevo?
A volte mi domando se mai sia stata vita, la mia, dopo quell’incontro e dopo una serie interminabile di “regali”.
Li ho scartati tutti, quei regali. Tutti.
Lasciando a terra allettanti involucri di carta patinata, nastri e lustrini, per scoprire poi che il loro contenuto mi avrebbe perseguitato per sempre, senza manifestazione alcuna esteriormente, ma lavorandomi e scavandomi dentro come un coltello che rigira nella piaga.
Lo custodisco in me, quel coltello.
Non me ne separo mai.
È la mia arma segreta e invisibile.
È un regalo.
È il “suo” regalo per me.
Oggi, per la prima e forse unica volta, la condivido con voi, questa confessione.
Firmandomi con il mio nome.

Gesù Bambino

© by Gabriella Truzzi