Da giorni vedeva un passero saltellare sul suo balcone. Subito non gli venne in mente che fosse sempre lo stesso passero, ma poi se ne convinse; aveva un modo tutto suo di saltellare, a gruppi di tre salti per volta, mai uno di più. Era buffo. Piccolo, sempre un po’ arruffato, per niente timido. Se lui si avvicinava quello non si scomponeva, nemmeno lo degnava di uno sguardo. Ripeteva con calma la sua serie di tre saltelli: zamp zamp zamp, e passava dal bordo del vaso della Haworthia a quello del Cleistocactus, sicuro di sé, indifferente alle spine delle piante grasse, le uniche piante che un single distratto come lui potesse tenere su quel balcone semichiuso e assolato.
Aveva notato l’uccellino solo perché lì non ne aveva mai notati altri e mai aveva trovato traccia dei loro bisogni né sul cornicione né altrove sul terrazzo. Lo adottò. Non che ci fece amicizia con presentazioni formali e nemmeno gli diede un nome come avrebbe fatto con un gatto o un cane; semplicemente prese due sottovaso bassi, di quelli che non usava, li lavò per bene e nel primo ci mise dell’acqua e nel secondo le briciole di pane del pranzo o della cena. Così, facendolo ogni giorno, si ricordò di annaffiare anche le piante. Troppa acqua. Lo capii dopo qualche giorno. Le piante grasse non avevano la sete che lui immaginava dovessero avere. Allora si documentò. Grazie a Google cercò le sue piante, ne scopri il nome che prima non conosceva e si appuntò il loro fabbisogno d’acqua. Cercò anche l’uccellino. Wikipedia sentenziò: Passero domestico, spesso chiamato semplicemente passero o passerotto, ma anche passera europea o passera oltremontana, è probabilmente l’uccello più diffuso e noto in Europa, sia nelle città che nelle campagne.
Doveva essere una femmina, si disse. Imprevedibile, sicura di se, un po’ sfrontata, vanitosa, ma anche tenera con quel suo zampettare dispari.
Dopo un paio di settimane dall’adozione si accorse che il piumaggio della passerotta era meno arruffato. Ne dedusse che la sua dieta a base di carboidrati – le briciole di pane – produceva l’effetto desiderato. Però, memore delle parole del suo dottore che gli aveva ordinato un’alimentazione più ordinata, comprendente poca carne, tanta verdura, della frutta di stagione, molta acqua al posto del vino, variò la dieta del passero. Ancora una volta si documentò su internet, cercò e trovò un negozio che vendesse cibo per animali e acquistò una busta di semi vari: riso, grano e cereali vari che integrò con delle noci sminuzzate e pezzetti di mela o altra frutta di stagione. Era maggio e la prima frutta data in pasto all’affamato volatile furono un frutto ricco di vitamina A, C, PP, potassio, fosforo, calcio e acidi organici: le ciliegie.
Anche a lui piacevano le ciliegie, oltretutto ricche anche di antiossidanti, nemici dei radicali liberi, che, insieme ai suoi vizi e al ricordo dei suoi tre amori falliti, stavano inesorabilmente minando la sua salute.
Si ricordò poi di avere da qualche parte uno scacciamosche micidiale e ne fece buon uso facendo al contempo un po’ di ginnastica cacciando le mosche e così servendo al passero cene luculliane, ricche di proteine. Il passero o la passerotta, non lo seppe mai, godeva di ottima salute e la manifestava tutta in brevi e apparentemente disordinati voli nello spazio ristretto del terrazzo intervallati da delle serie ripetute, sempre dispari, tre a tre, di saltelli gioiosi.
La sera, chiuso il polveroso ufficio da amministratore di condomini, tornava a casa contento, sicuro di trovare un amico, un’occupazione capace di cancellare la noia di quei conti che gli davano da mangiare, ma non più da vivere. Ancora pochi mesi e a fine anno, leggi ballerine e INPS permettendo, sarebbe andato in pensione.
Il passero stava bene, le piante pure, lui aveva perso tre chili e recuperato il fiato necessario a salire le scale senza doversi fermare un momento a metà, sul pianerottolo della signora Grisi e figlio: un ragazzetto magro da sembrare denutrito che, al contrario suo, saliva le scale saltando i gradini, tre per volta.
Pensandoci si accorse che il numero tre era una costante della sua vita: a tre anni era quasi morto di TBC, aveva demolito tre biciclette in altrettanti incidenti senza gravi conseguenze, tre le fidanzate che aveva perso e che gli avevano dato la speranza di una vita se non felice almeno normale, anche le sue automobili erano state tre: una cinquecento, una mini minor e per ultima una Toyota Corolla tre porte che ancora teneva duro.
E tre mesi durò l’adozione. A fine agosto il passero sparì. L’aspettò una settimana, due, tre, poi si rassegnò. Solo in quel momento si rammaricò di non avergli dato un nome. Chiamarlo semplicemente passero ora gli pareva brutto, troppo impersonale, anche se si rendeva conto che il passero non era una persona ma un’animale selvatico che, essendo appunto selvatico, obbediva alla sua legge naturale. Legge che lui non poteva capire. Umanizzandone il ricordo lo battezzo Enea e lo immaginò capostipite di un popolo di passeri gentili, capaci di portare un momento, almeno un momento, di tenerezza, di vita.
Le sue piante stavano bene e anche lui stava bene. Solo il suo cuore risentì dell’abbandono e si ammalò di nostalgia. Decise che la nostalgia era un malessere dell’età, come i bei ricordi.
Sarebbe stata una compagna fedele, la nostalgia. Non era il caso di farne un dramma.
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