È il mercante di tappeti che ha bussato alla mia porta,

e ora aspetta rassegnato che io non compri e gli dica di andare.

Lo vedo negli occhi scuri e nel volto bruciato dal sole,

radi baffetti e crespi capelli, la tristezza dei poveri nel cuore.

No, non compro niente, quando mai ho comperato?

Ma non te ne andare! Lo chiamo, entra, se vuoi,

mangiamo insieme e poi, poi, se vorrai, te ne andrai.

Lui mi guarda stupito, incredulo, timido in fondo e forse impaurito,

mentre nel suo italiano si confondono facili il tu il lei e il voi.

Entra, infine, ed è stanco, si siede, sorride, ma solo per timido ringraziamento.

Ci vuole il vino, spesso, del Sud, per aprirgli la bocca e farlo cantare,

della sue terra, di porti e di deserti, di una famiglia creata e distrutta

dalla fame e dalla guerra, intuisco, là, nel suo paese.

Ma non c’è rabbia, nel suo rapido dire, non una parola contro la sua patria lontana:

un incidente lo ha fatto nascere povero, il volere di Dio lo ha mandato poi via.

E ora ride, forse adesso è sincero, gli si apre la camicia sul petto magro,

giunge perfino a toccarmi la spalla, ma lo fa un po’ esitando, mi sento razzista,

mentre spio avido la sua facile felicità dentro i grandi neri occhi.

Ma io non posso comprare, io invento parole e costruisco storie, ma non compro.

Lui si alza e riprende la sua merce da poco, indugia un momento solo sulla soglia,

gli mando un ciao incerto, anche lui mi saluta, ed è già per le scale.

Svanisce in un attimo il suo mondo antico, dalla finestra lo vedo camminare

col suo passo strascicato sulla strada, nel sole, verso altre porte e altri no.

Trascina lento ma con quanta dignità, quello che ancora resta della sua povera vita.