Ad un improvviso colpo di libeccio il gabbiano che sembrava fermo sul mare inclinò improvvisamente le ali, prese il vento di coda e sembrò piombare velocissimo sulla spiaggia. Una manovra elegante, un fruscio, e risalì in aria quasi sfiorandolo.

Adesso erano molti gli uccelli che volteggiavano sulla foce del Bisagno, e il loro gridare ricordava il film di Hitchcock: cercavano il cibo nell’acqua grigia, ed era difficile pensare che riuscissero a trovare dei pesci, nonostante i pescatori che si protendevano dagli scogli del frangiflutti con le loro canne .

Giuliano lasciò scivolare lentamente dalla mano il ghiaietto che aveva raccolto sul bagnasciuga, osservando il traghetto che stava entrando nel porto, indifferente al vento che batteva le onde strappando al mare spruzzi di schiuma biancastra. Un  pallido sole sembrava incerto se uscire dalle nubi o ritirarsi del tutto, lasciando campo libero alla burrasca in arrivo.

«Non ricordo che fosse così quando ero partito,» pensava «non era così che avevo lasciato questa città, bambino tra le braccia di mio padre, il cuore che mi scoppiava in gola e nell’animo la meraviglia per l’america.»

Sognava. In realtà sapeva benissimo di non aver capito granché di quella partenza, la grande nave che si staccava dalla banchina, la gente che salutava. Era troppo piccolo, stava soltanto immaginando quelli che potevano essere i sentimenti di suo padre, non rivivendo dei ricordi. Lui ricordava soltanto il lungo viaggio, lo sbarco in un giorno di sole accecante, la nuova terra che cominciava in una città che subito diventava campagna, lo spagnolo, le note tristi del tango.

La nuova vita, la scuola, il lavoro, la famiglia.

I figli che si erano sposati, la pensione, la crisi economica, lui e sua moglie che un giorno si erano guardati e si erano detti: «ma cosa ci stiamo ancora a fare, qui?»

Il ritorno, in aereo questa volta, Genova dall’alto, l’aeroplano che atterrava sorvolando un grande impianto siderurgico…

Da quel giorno, mentre sua moglie visitava cugini e nipoti mai conosciuti e riallacciava amicizie nate per posta o per telefono, lui passava le giornate camminando per la città, alla ricerca di sensazioni perdute

Se suo padre fosse stato ancora vivo! L’avrebbe portato in giro per i vicoli, raccontandogli storie vere o forse inventate, mostrandogli personaggi che erano esistiti ai suoi tempi «… proprio uguali a quelli che vedi dietro quel banco!»

Ma allora non c’era quel mostro grigio che aveva preso il posto dei bagni Strega, né quell’altro che vomitava fumo e polvere su Sestri Ponente.

E dov’erano le vigne di Coronata? E le verdi colline del Righi?

Solo il mare era lo stesso, grigio come il piombo, freddo come l’acciaio, sconfinato come il vuoto che sentiva dentro l’anima, immenso a confronto di questa città che, alla fine, era solo una striscia di case tra l’acqua e le montagne.

Gente frettolosa scivolava lungo le vie, strepitii di auto imbottigliate ai semafori.

Bambini che giocavano nel piccolo giardino di un asilo, che salivano e scendevano dagli scivoli, che costruivano nella terra immaginari campi di battaglia…

Ecco, i bambini erano gli stessi, lì come in sudamerica; la stessa gioia negli occhi, la stessa naturale fede nella forza della vita.

Da dove traeva l’energia per sopravvivere questa città malata? Non nelle grandi pianure alle spalle, che non aveva, non nelle fabbriche che trasformavano materie prime importate da lontano, ammorbando l’aria e uccidendo i suoi abitanti, lugubre cattedrali imposte a un popolo che mai le aveva amate.

Non era la terra… era il mare, il mare stesso che l’aveva creata, fatta crescere, e ne scandiva ogni istante di vita, passata, presente, futura.

Il mare, bianco di schiuma, azzurro di cielo, il mare della sua giovinezza nella Boca, in quel quartiere dove il genovese si mischiava allo spagnolo, lo stesso oltre il quale aveva tanto immaginato questa città, lontana un oceano e un continente, dove c’erano quelle radici che adesso non riusciva a trovare.

Che senso aveva cercare quelle origini, quando lui stesso non riusciva a distinguere le differenze tra i suoi mondi, le sue vite? Perché ostinarsi a voler discriminare, dividere, sezionare una vita trascorsa tra Genova e l’Argentina, quando poi era sempre la stessa, presente e passato uniti in modo inestricabile, fusi nel mistero che ognuno di noi custodisce e chiama identità?

E dov’era la differenza in questa città moderna, i muri che parlavano inglese, le stesse canzoni che si mischiavano alle parole monotone della televisione, alle urla di vicini che litigavano?

Questa era la realtà, finalmente Giuliano aveva capito: non esisteva una città del passato e una del futuro, una che l’aveva visto partire per nave e una che l’aveva osservato atterrare al Cristoforo Colombo.

Genova era sempre la stessa, attraversava il tempo adeguandosi ad esso, trasformandosi come solo una grande città di mare sapeva fare, crocevia di popoli e di razze che da sempre si mischiavano e trovavano modo di vivere e lavorare in comunione, lontani da odi e discriminazioni.

Camminava veloce, adesso, emozionato dalla sua intuizione, e di colpo era arrivato a Caricamento, alle spalle la Ripa Maris, davanti la grande piazza e il Porto Antico. Cosa mancava ancora? Da una finestra, uscivano delle note moderne e antiche, una nenia araba su una ritmica moderna: «Umbre de muri, muri de mainé/ dunde ne vegnì duve l’è ch’ané…» . Sorrise, scuotendo la testa: niente, non mancava proprio niente.